L’Esercito lascia Messina al suo destino – Lettere dal terremoto


I soldati dell’Esercito a Catania

Giorno 2 marzo. Trasferimento a Santa Teresa di Riva. Qui due rappresentanti del Comitato americano per le baracche, i signori Harry Bowdoin e Charles King Wood, accoglievano le richieste della popolazione. A volte, erano proprio esagerate: c’era chi voleva tavole di legno per «un ricovero tranquillo e sicuro, confacente alla condizione sociale d’avvocato e consigliere provinciale», chi una casa americana smontabile a Messina e una baracca ad Alì, per la villeggiatura. I due americani, allibiti, facevano accordi con un tenente del Genio perchè delle autorità locali non si fidavano affatto.


Il 4 marzo i bersaglieri viaggiavano verso Catania. Pivello lasciava le consegne al caporal maggiore, scontrandosi con la suscettibilità del Sindaco che avrebbe voluto assumere il comando, e montava sul treno. Nell’aria un odore forte di limoni. La città, infatti, produceva un ottimo acido citrico: «ognuno ha il suo piccolo trappeto e lavora u’ limuni dalla buccia polposa, e ne spedisce lontano in damigiane ben riparate e sigillate il succo acidulo e profumato…». 

Finalmente il tempo volgeva al bello, ed era sole, mare e cielo azzurro dappertutto. Curiosa la reazione dei soldati all’arrivo alla stazione di Catania: s’impressionarono alla vista di palazzi di tre e quattro piani ancora in piedi. E poi al passaggio del tram elettrico. Non erano più abituati. Il disastro di Messina aveva confuso i loro ricordi. 

Hotel, paste alla crema e cocktail per dimenticare il dramma messinese

A Catania tornava loro il sorriso e anche la voglia di scherzare. L’amministrazione municipale non aveva pensato a dar loro degli alloggi, si era solo premurata a consegnare un foglietto di carta con lo stemma di Catania, la firma di «A. De Gaetani» e la data, sbagliata, del 4 febbraio, invece che di marzo. Con quel foglietto non riuscirono a farsi dare neanche una stanza. Così Pivello e Ceccarelli decisero di pagarsela da loro, tre lire e cinquanta per sera, e si fecero trattare come dei signori, «così, per ridere». La mattina dopo i commilitoni si riversarono sulla via Stesicorea, «lunghissima, larga, pulita, fiancheggiata da negozi elegantissimi», con tante belle ragazze dagli «occhioni neri e profondi, bocche sinuose e sanguigne, piedini piccolissimi, incedere regale…». Fecero visita ai caffè, mangiarono paste alla crema e bevvero ottimi cocktails. Chi l’avrebbe detto che quelle stesse mani, qualche giorno prima, gettavano i morti nelle fosse? 

Pare che i militari non fossero particolarmente graditi da quelle parti. Era periodo di elezioni a Catania e, fra parti avverse, si sgomitava parecchio. C’era la nuova presenza del socialista De Felice al II Collegio, invece che al I, dove si collocava il compagno di partito Auteri-Beretta. Al II Collegio, infatti, si era presentato un avversario temibile portato dal Governo, ma la mossa di De Felice aveva tolto ogni speranza al candidato ministeriale «perchè quaggiù l’on. De Felice e la Bedda Matri se non sono propriamente la stessa cosa, godono però delle stesse simpatie […] questo ha dato sui nervi al Ministro degli Interni e ai suoi rappresentanti qui, che delle elezioni han fatto quasi una questione personale, e fan fuoco e fiamme, in pieno secolo XX!». 

Il motivo dello spostamento? Le elezioni

Le elezioni non furono proprio una manna dal cielo per i soldati perchè dovettero fare «da spaventapasseri nelle beghe fra Governo e popolazione» e non chiusero occhio per tre giorni. Ogni piccolo contrasto che sorgeva fra i due contendenti, si chiamava l’Esercito. Come si voleva che fosse amato dal popolo? Perchè non si chiamavano i carabinieri o le guardie di P.S.? 

Il 7 marzo, dopo la proclamazione della vittoria di Auteri-Beretta, il partito socialista improvvisò una dimostrazione, portando a passeggio per la piazza un pupazzo di paglia disteso su un carro e intonando un miserere. Questa «passeggiata carnascialesca» fu messa subito a tacere dalle forze dell’ordine con duri pestaggi. Il commissario mandò addirittura a chiamare due compagnie di soldati, ma il maggiore dell’Esercito, vista la tipologia dell’intervento, preferì trattenere le truppe. Che tristezza! Un esercito ridotto a controllare cortili, davanti alla prefettura o al municipio. Da una tintoria vicina provenivano i rumori delle seghe meccaniche e le voci delle donne che intonavano sempre la stessa canzone. L’ironico Pivello, in quel momento di nervosismo generale, invocò tra i suoi commilitoni il suffragio femminile, in modo tale che anche alle donne toccasse impegnarsi durante le elezioni…

Profughi messinesi a Catania

L’emergenza profughi era scattata da molti giorni ormai e i catanesi erano seriamente preoccupati. Si diceva che vi fossero ben 22.000 messinesi a Catania, ma «parecchi son piovuti d’altre parti dell’isola, poichè pare che il mestiere del profugo sia molto fruttifero». La distribuzione dei viveri avveniva davanti a una chiesa, sugli altari c’erano i registri, su un tavolo le bilance, a terra le ceste con le vivande: pasta, lardo, olio, carne, formaggio, baccalà, frutta secca, venti centesimi per il pane. Le tessere personali venivano vidimate con un bollo dopo il ritiro, per non consentire doppie consegne. 

La sera del 9 marzo, alcuni catanesi appena arrivati da Messina s’incontrarono al caffè e ognuno andava dicendo la sua: per uno di loro il Governo avrebbe dovuto mandare diecimila uomini, gettare le rovine in mare, salvare i feriti, seppellire i morti, recuperare gli averi; per un altro, l’operazione sarebbe stata troppo costosa e che, per dirigere i soccorsi, sarebbe bastato nominare un commissario civile accanto a quello militare; un altro ancora riteneva che, in quel frangente, chiunque avrebbe perso la testa, persino Codronchi, e che nessuno poteva dirsi preparato a un terremoto. 

Quale impressione ebbe sull’esercito quella disorganizzazione? È Pivello a toglierci il dubbio: «In Italia l’Esercito è un poco come quegli ombrelli che i francesi chiamano les en tous cas, e servono per la pioggia e il bel tempo». 

Finita la guerra, grazie anche all’opera dei socialisti, ai soldati non toccò altro che il compito di assicurare la pace interna: «L’Esercito è diventato come una vecchia sciabola rugginosa appesa alla parete, che potrebbe anche servire al suo scopo, dopo un’accurata pulizia perchè il metallo ond’è fatta è ottimo, ma che ora serve alla massaia per battere il lardo, e ai marmocchi per spaccare i pezzetti di legno dolce pe’ loro trastulli». 

La differenza tra il generale Mazza e l’on. Micheli

E, a proposito del Mazza: «Colpa sua se questo vecchio soldato per quanto provetto e intelligente stratega e tattico, si sia perduto là dove un vecchio politico abituato, se non ai disastri, ma ad organizzare e a dirigere la massa tumultuosa d’una popolazione e non la compagine fida silenziosa ubbidiente d’un corpo d’esercito, non avrebbe forse perduto la calma facendo molte cose inutilissime e trascurandone altre molte di prima necessità? […] il comandante in capo diveniva medico e sterratore, ingegnere e distributor di soccorsi, e per tema d’essere chiamato responsabile di falli de’ suoi dipendenti, si accollava lui le piccole responsabilità di tutti, dimenticando la propria grandissima. E quei bravi signori che erano nel caffè mi rappresentavano un pò il Governo e la Camera di quei giorni che, credendo d’aver risolto il problema passando il dovere di risponderci a un altro, se ne lavavano le mani, e guardavano noi laggiù come a teatro gli spettatori un dramma: applaudono questo o quell’attore, e se il dramma cade, se ne vanno a casa con la coscienza tranquilla». 

Disordini durante le elezioni: polizia e socialisti

Nei giorni successivi i bersaglieri furono dislocati a Licodia Eubea, a Scordia e a Vizzini per presidiare nuovi seggi elettorali. A Vizzini si candidava il dottor Costa, un radicale contro il candidato ministeriale. A dire la verità il dottor Costa aveva avuto il buon senso di rifiutare la candidatura offertagli dal partito. Ma poi piovvero in paese Colajanni, De Felice e «il suo antico maestro di chirurgia», il senatore Durante, «un altro che, fatto senatore pei suoi meriti scientifici, s’è convinto d’essere un uomo politico», per persuaderlo che «sotto la cappa del cielo italico non c’era un altro più capace di lui a fare il deputato». Il povero dottor Costa, visto il popolino minaccioso, vista la richiesta lusinghiera del partito, decise che «non poteva rifiutare, si rassegnò e si fece portare». D’altra parte anche Giolitti volle prendere posizione in quel collegio, tramite il suo candidato, e la lotta fu veramente animata. C’erano tante guardie di P.S. in divisa e in borghese e tanti carabinieri, nemmeno si fosse ai tempi del brigantaggio. Anche se quel brigantaggio lì, dice Kessler, era tutta un’altra cosa. Qui le forze dell’ordine attaccavano i socialisti, e c’erano scappati anche un buon numero di feriti. 

A Licodia Eubea la povertà era di casa, i vecchi giocavano a carte e circolavano pochi giornali regionali parecchio noiosi. Tuttavia, c’era il Corriere dei Piccoli con le avventure di Fiammiferino e le liti fra Checca somara e sor Ciccio a tenere allegro il nostro Pivello. 

Rientro a Messina a 90 giorni dal disastro

Alla fine della «missione» nel catanese, il battaglione dei bersaglieri ritornò a Messina. Era il 24 di marzo, lo stato d’assedio era già cessato. Nel cuore dei soldati c’era la speranza che la città si fosse ripresa, che i loro sforzi non fossero stati vani e che gli organi amministrativi e il genio civile avessero ripreso a funzionare. In treno si mangiò e si brindò alla città risorta, alla Patria, al Re. 

Messo il primo piede a Messina, invece, i bersaglieri restarono sconvolti «perchè, oggi 26 marzo, dopo 90 giorni dal disastro, Messina è ancora quello che era dopo dieci giorni». 

I soldati ripercorsero le zone dove avevano prestato la loro opera. Non c’erano le strade, le macerie erano sempre lì, insieme ai corpi putrefatti. I vivi abitavano sotto le tende, le baracche erano un terribile sconcio. «A Castanea ho avuto il piacere di vedere le famose baracche del Genio cosiddetto civile. Ah, perdio, amica mia, che vergogna che rossore m’è salito alla fronte! E son queste le baracche in cui deve abitare una popolazione chissà quanto? E per escogitare questa baracca modello l’ing. Simonetti e i suoi accoliti hanno studiato quaranta giorni? E son queste le case che il Governo prometteva ai poveri superstiti?». 

Le baracche fatte costruire dal Governo italiano erano pessime: scatole formato quattro per quattro con due aperture, una anteriore e una posteriore, senza alloggiamento per la cucina nè bagno. Nessuno dei profughi di Castanea volle alloggiarci, preferirono rimanere sotto le tende. Eppure, riporta Kessler, non mancavano nè legname nè braccia. 

L’Esercito lascia Messina

Arrivò il momento dei saluti. Le compagnie dei bersaglieri s’imbarcarono per Napoli. Partirono lentamente, a gruppi di trenta persone, senza dare nell’occhio. 

A bordo dell’Enna, la sera del 26 marzo, Pivello scriveva alla madre che abitava a Sorrento. Le faceva il resoconto dei giorni trascorsi fra morti, feriti, incendi, distribuzione di viveri. Giorni che avevano messo a dura prova il suo fisico e il suo temperamento. A sorreggerlo, «la voce della coscienza del dovere compiuto» e la speranza di ritornare fra le braccia della madre per ricevere la sua benedizione. 


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(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].

(2) D. De Pasquale, I Marchesi di Cassibile, ABC Sikelia Ed., 2018


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