Quando il poeta arrivò a Messina
Messina, dopo il disastro del sisma del 28 dicembre 1908: mentre in città si lavorava per recuperare i corpi, il porto era un viavai di navi d’ogni nazionalità che depositavano vettovaglie, coperte, tende e imbarcavano migliaia di superstiti imploranti aiuto.
Altrettanto alacremente lavorava il treno che viaggiava lungo il binario Catania-Messina, portando i viveri e i vestiti raccolti dai comitati cittadini, nuova manodopera e tecnici per ripristinare i servizi di comunicazione interrotti dal sisma.

Fra questi ultimi c’era Gaetano Quasimodo, un capostazione staccato dalla sede di Ragusa e spedito a Messina per cercare di ripristinare la rete ferroviaria distrutta. Purtroppo gli alloggi che potevano garantire sicurezza d’abitabilità erano assai carenti, cosicché Gaetano, che aveva portato con sé la sua famiglia, la moglie Clotilde Ragusa e il piccolo Salvatore, si trovò costretto a vivere in un vagone presso un binario morto vicino la stazione. Il figlio Salvatore aveva appena sette anni e in quelle macerie visse tutta la sua infanzia.
Il futuro premio Nobel si diplomerà nel 1919 presso il Regio Istituto Tecnico Professionale e Industriale di Messina, con il titolo di geometra, e stabilirà le prime amicizie con personalità come Giorgio La Pira e Salvatore Pugliatti, noti giuristi.
In occasione dei novantanni del padre e dei cinquanta del terremoto, Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968) scrisse una toccante poesia che, a buon titolo, diventò testimonianza sincera di quei giorni terribili: Al padre [da La terra impareggiabile (1955-1958)]
Al padre
Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.