Lasciamo dunque la parola ad un altro testimone autorevole del dopo terremoto, il geografo Mario Baratta. Lo studioso, dopo aver analizzato i danni causati dal sisma, ne riportò i dati in un’interessante e documentata pubblicazione, risalente al 1910. Già noto per avere denunciato nelle tipologie costruttive le principali cause dei disastri nei terremoti calabro-siculi del 1894, 1895 e 1905, Baratta fu estromesso nel 1906 dalla Commissione geologica per gli studi sismici. Il terremoto di Messina del 1908 fu per lui un’occasione preziosa per rilanciare le sue teorie in una nuova pubblicazione che ebbe il solo sostegno economico della Società Geografica Italiana.
La nuova classificazione dei danni causati dal terremoto
Baratta distinse diverse tipologie di danni alle abitazioni e le classificò riguardo alla natura dei materiali utilizzati, ai sistemi costruttivi e all’entità del sisma nei vari rioni della città:
« a) Case apparentemente intatte, o con solo qualche lesione specie alle piattabande delle finestre e delle porte e ai cornicioni. In generale però hanno i piani, i muri divisori e le scale sconquassate e cadenti. Sono gli edifici che relativamente hanno sofferto meno per il terremoto
b) Case con i muri perimetrali intatti o quasi, ma con il tetto caduto: per conseguenza hanno interamente demoliti tutti i piani, i divisori e le scale d’accesso; è rimasto il solo scheletro dell’edificio. Generalmente però il muro di facciata ha rovinata o malconcia la parte terminale, ove appoggiavano i puntoni costituenti l’armatura del tetto.
c) Case con il muro di facciata demolito, la cui caduta ha causato di conseguenza la rovina della porzione attigua delle pareti divisorie e dei piani, specie se questi costruiti a voltine sui ferri a doppio T. Queste case sembrano veri immensi alveari e le camere così messe allo scoperto lasciano scorgere i mobili, magari rimasti a posto e i quadri ancora appesi alle pareti, che conservano la primitiva posizione ed inclinazione. In alcuni appartamenti si veggono perfino in mezzo alle camere pendenti da volte e soffitti fragili lampadari in vetreria di Murano perfettamente intatti, ed anche lampade portatili e vasi in ceramica collocati su tavole e mensole, non solo illesi e non rovesciati, ma nemmeno smossi.
d) Edifici che hanno conservato solo intatto un muro di facciata e nel resto completamente quasi demoliti: la parte superstite sembra un colossale seminario di una tragica rappresentazione.
e) Quartieri di case demoliti completamente ad eccezione della porzione centrale rimasta in piedi quasi come torre, benché in miserrimo stato.
f) Case rovinate completamente specie fino all’altezza del piano superiore.
Pochissimi infine sono gli edifici che hanno realmente resistito alla violenta concussione del suolo, ricorderò a tal proposito il villino del prof. Cammareri sull’estremo a monte della via S. Martino».
Il villino del Prof. Vincenzo Cammareri
Già, ma perché il villino del professore Vincenzo Cammareri (Forza D’Agrò, 23 gennaio 1853 – 9 giugno 1911), noto massone e rinomato medico, rimase miracolosamente intatto? L’abitazione era una struttura ad un solo piano che appoggiava su robuste fondamenta in calcestruzzo. La muratura, ordinaria, era composta da mattoni e pietrame, unita e rivestita con malta ed elementi a stucco. I muri di fondazione, dello spessore di metri 1,50, erano composti di malta ad alta percentuale calcarea e pozzolana sino all’altezza di metri 1,50 e, per altri 1,20 metri, di malta e mattoni. I muri perimetrali, concatenati mediante robusti e numerosi tiranti in ferro, erano costituiti da mattoni larghi 70 cm, mentre lo spessore dei mattoni delle pareti interne era di 40-50 cm. Vederla ancora intatta fu considerato un vero miracolo poiché la zona in cui si trovava fu tra le più devastate e intorno ad essa giacevano solo cumuli di macerie.
Ma villa Cammareri non fu la sola costruzione rimasta in piedi: quasi tutte le abitazioni ad un solo piano, costruite solidamente, con tecniche sperimentate dopo il terremoto del 1783, e distaccate dall’agglomerato urbano, non fecero una piega.
I quartieri di Messina più colpiti dal terremoto
Sulla base dei dati raccolti, Baratta passò in rassegna le zone più colpite dal terremoto: via Porta Imperiale con l’ospedale civico interamente crollato, il corso Cavour fino all’Annunziata (dove però la statua di Don Giovanni D’Austria rimase illesa, foto in alto), la via dell’Università e la relativa biblioteca, il rione Boccetta dove non si distinguevano più le strade e le case originarie, via Monasteri con il Monte di Pietà, via Casa Pia con l’irrecuperabile monumento al matematico Maurolico, via Cardines con le famose quattro fontane, via Garibaldi con le chiese della Maddalena, del Purgatorio, di San Filippo Neri e l’Ospedale Militare, Piazza Duomo con la Cattedrale semidiroccata e la fontana di Orione distrutta, via S. Giacomo, dove solo la casa dell’avvocato Calapaj era stata risparmiata.
Le conclusioni del geologo Baratta sulle costruzioni di Messina
Dietro un’attenta osservazione delle macerie e delle rovine, Baratta concluse: a Messina «ho notato il trionfo del fasto più spensierato. Anzitutto i fabbricati sono eccessivamente alti e quasi sempre non per struttura organica, ma per successive sopraelevazioni compiute ogniqualvolta le condizioni cittadine per aumento della popolazione o per maggior benessere richiedevano un numero più grande di vani abitabili. Così case con un solo piano superiore vennero ridotte da prima a due, poi a tre ed anche a quattro piani: ma la struttura muraria primitiva, che con maggior probabilità avrebbe potuto resistere all’impeto dei tremuoti, non essendo stata menomamente rafforzata, è venuta nell’occasione del parossismo del 28 dicembre u. s. a sfasciarsi […] In certi edifici, come ho già riferito, i muri sono assolutamente vuoti, oppure riempiti ‘a sacco’: costruzione, com’è noto, inadatta ad opporre valida resistenza e condannata da tutti i regolamenti di edilizia sismologica».
Inevitabile, consapevole e pesantissima la sua accusa finale: «riepilogando, la causa precipua dell’immane disastro messinese si deve ricercare ne’ difetti di fondazione, nella pessima costruzione delle case, nella soverchia loro altezza e nell’azione spingente delle armature del tetto, nella inadeguata incastratura delle testate dei legnami entro i muri di appoggio, per la quale durante l’oscillazione del fabbricato, queste sono potute uscire dalle loro nicchie».
L’idea che non si riesce a imparare dagli errori precedenti è ribadita anche dall’ingegnere Luigi Vianisi, il quale sottolineava come il Palazzo Bonanno presentava «balconi pesanti e sporgenti» e che a Messina si era sparsa la moda dei muri pieni di mattoni e pietre, quando le vecchie pareti di canne e gesso erano più indicate.
Fra le case che avevano resistito al terremoto, citava le casette a un piano, in muratura e legno, nei pressi dell’Ospedale Civico e del torrente Boccetta. Grande impressione, ad esempio, aveva destato la casetta dell’architetto Staiti sul torrente Portalegni, costruita agli inizi dell’Ottocento come prototipo di casa con struttura antisismica: sette metri d’altezza, pianterreno e primo piano con struttura in muratura, legno e mattoni (foto n. 30). C’erano altri esempi di case in muratura praticamente illese: la casa Cammareri sul viale S. Martino angolo via Nino Bixio, a un solo piano alto sei metri; la casa del cavaliere Francesco Andò, sul viale S. Martino, a pochi passi dalla precedente, di dodici metri di altezza; un’altra casa fra Primo Settembre e il viale S. Martino, dell’altezza di sedici metri; una casa di via Primo Settembre, dietro la Chiesa di S. Giuseppe, risalente nientemeno che al 1744 .
Un’ulteriore conferma della resistenza delle case costruite con sistemi antisismici e della casa del dottor Cammareri ci viene da Filippo Nicastro Ventura: «Tra i fabbricati civili restò intatta la casa Savoja dirimpetto alla cattedrale, forse per la solidità della costruzione, opera dell’insigne ingegner Leone Savoja, e il villino del dott. Cammareri, edificio moderno costruito con le regole dei sistemi sismici, il quale sito nel viale S. Martino ha raggiunto prezzi di fitto quasi incredibili».
La sottovalutazione del rischio sismico a Messina
Queste preziose testimonianze ci offrono vari spunti: da un lato confermano la nostra ipotesi che il rischio sismico, pur sempre avvertito come una minaccia, fu messo da parte sia per questioni d’economicità (bisognava abbattere le vecchie costruzioni per crearne di nuove, provviste di costose misure antisismiche), sia per lo smoderato ottimismo che invase gli animi degli amministratori locali in quello scorcio di fine e inizio secolo; dall’altro lato, ci forniscono una sorta di mappatura della “pericolosità sismica” d’alcune zone urbane, ben considerata da alcuni cittadini al momento del reinsediamento. Si badi bene come la categoria degli ingegneri, più vicina al problema del terremoto per questioni professionali, avesse provveduto a costruire per se stessa abitazioni resistenti e con tecniche antisismiche, mentre continuò a realizzare pericolose sopraelevazioni per i borghesi committenti. Purtuttavia, da alcuni suoi componenti si erano levate alte le voci di protesta contro queste sconcertanti leggerezze, ma restarono voci praticamente inascoltate.
Riporta lo stesso Nicastro Ventura: «dopo il 1783 il governo borbonico avea dato norme esatte e giudiziose per le ricostruzioni delle città abbattute; ma queste norme erano state poco a poco dimenticate e violate. I piani si erano sovrapposti gli uni agli altri, e alcune facciate levigate mascheravano abitazioni interne veramente fragili».
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- Scale sismiche e sistemi di registrazione meccanografici dell’800
- Le tre scosse di quel mattino del 28 dicembre 1908
(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
(2) D. De Pasquale, I Marchesi di Cassibile, ABC Sikelia Ed., 2018
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