Come molte altre città italiane, Messina subì un’operazione di restyling urbanistico dopo la nascita del Regno d’Italia. La città abbandonò il vecchio assetto medievale delimitato da una cinta muraria, l’isolamento dei palazzi storici, le aree verdi a ridosso della zona portuale, per popolarsi di nuovi caseggiati, di operose fabbriche di lavorazione delle pelli, di derivati agrumari, di mattoni, di macinazione dei grani, in buona parte collocate fra il torrente Portalegni (oggi via T. Cannizzaro) e il porto. Fino al terremoto del 1908.
Ottocento dimenticato: passeggiando sulla via del Corso, a Messina
1. In quelle mattinate frizzantine d’autunno, il cappellaio Visco era solito percorrere il Corso Principe Amedeo, prima di raggiungere la sua bottega in via del Corso, ammirare lo specchio d’acqua che lo separava dalle Calabrie e l’attività frenetica dei portuali che si occupavano del carico e dello scarico delle merci, mentre il resto della città si crogiolava fra le lenzuola.
Le abili mani dell’artigiano inserivano la chiave nella toppa del portone del negozio e le facevano fare due giri verso destra, poi la estraevano, la depositavano nella tasca della giacca e spingevano forte per disincastrare le due ante di legno gonfiate dall’umidità. Guadagnatasi l’entrata, Visco spostava le tendine dall’interno e, mentre il locale e i suoi cappelli cominciavano a respirare l’aria del mattino, andava a posare diligentemente la sua giacca sull’appendiabiti a tre piedi, proprio dietro il bancone. Dalle sue ampie tasche estraeva un paio d’occhiali minuscoli, con la montatura d’osso, e li indossava. Poi, si dirigeva verso la vetrina e tirava dal muro un banchetto a tre piani, lo spolverava ben bene con il piumino e vi collocava sopra una serie di cappelli di varia foggia: la paglietta che poteva ancora andare bene per le temperature di quel periodo, il cilindro per le serate di gala, la bombetta per gli esterofili, il cappello invernale di panno a falda larga e calotta media per gli usi comuni e, infine, la sicilianissima coppola. Eseguiva la stessa rituale operazione con i guanti di pelle e di seta. Poi tornava al bancone, apriva un cassetto, si armava di ago e filo e cuciva i modelli che aveva ritagliato il giorno prima.
Mommo Visco faceva questo lavoro ogni mattina, tutti i santi giorni, da trent’anni, e quando il sole arrivava a lambire il banchetto dei cappelli, usciva fuori a stendere la tenda.
Dal re Ferdinando II al generale Garibaldi
Da quella posizione privilegiata, proprio lì, davanti al suo negozio, aveva visto l’esercito del re Ferdinando II prima schierarsi per l’occupazione della città e poi ritirarsi sbeffeggiato dai cittadini messinesi. Era ancora presente quando le camice rosse entrarono a Messina con in testa il generale Medici (Giacomo Medici, marchese del Vascello, Milano, 15 gennaio 1817 – Roma, 9 marzo 1882, nella foto in copertina, in una xilografia del 1890) e il cavallo bianco strappato al comandante borbonico Bosco, fra le acclamazioni della folla. Buona parte della storia di Messina, dei suoi nobili, dei suoi re, della sua povera gente, gli era passata davanti agli occhi, inesorabile. Quando accadeva qualcosa di nuovo e tutti uscivano fuori dalle case, un pò per curiosità e un pò per abitudine, Mommo alzava lo sguardo da sotto gli occhialini e, mentre spezzava il filo della cucitura con i denti, lo puntava dritto fuori dalla porta del negozio, sulla strada, osservava qualche secondo e poi ritornava al suo lavoro. In fondo, sapeva che tutto sarebbe ritornato come prima.
Chissà quante storie fatte di gesta quotidiane, come quella del cappellaio Visco, avrebbe potuto raccontarci Messina. Purtroppo dobbiamo accontentarci di ridondanti biografie ottocentesche intrise di rigida retorica risorgimentale.
Nessuno dei ritratti che abbiamo rinvenuto, infatti, svela il personaggio nella sua quotidianità: i biografi circoscrivevano le emozioni all’ambito degli avvenimenti storici risorgimentali, esaltavano la rettitudine morale e le gesta del novello eroe di turno.
La rivolta antiborbonica a Messina
È il caso di Carlo Peirce che, nella rivolta di Messina del 1 settembre 1847, a soli diciannove anni, s’avventurò fra i fuochi dei soldati borbonici per recuperare il corpo straziato dalle ferite del rivoluzionario messinese Nicola Scotto, lo portò dal farmacista La Spada perchè lo curasse e si rigettò nella mischia. Quale impiegato presso l’azienda di vapori francesi «Messaggerie», Peirce salvò parecchi dissidenti facendoli imbarcare sui vaporetti. Giuseppe Mazzini e Nicola Fabrizi raccomandarono proprio a Carlo Peirce i rivoluzionari Francesco Crispi, Rosolino Pilo, Luigi Micali, Luigi Spinella, Giovanni Crimi e Luigi Giacopello perchè venissero imbarcati per Malta, eludendo i controlli della polizia borbonica. Persino Garibaldi, dopo l’entrata in Barcellona, lo encomiò «con grandi lodi».
Peirce faceva parte della generazione dei nati intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, quella che visse appena in tempo il primo scontro rivoluzionario in seguito alla restaurazione del re Ferdinando II, detto il «re bomba» perchè fece bombardare la città dagli stessi cannoni della zona falcata. Nata nel mito della precedente, si presentò più forte e organizzata, riuscì a mantenere rapporti con altri cospiratori italiani, instaurando una fitta rete di contatti segreti e diventando anch’essa un fenomeno europeo. Ricordiamo che la generazione precedente, dei nati nel primo decennio del secolo, aveva avuto fra le proprie file Giuseppe La Farina, Michele Basile, Riccardo Mitchell e tanti altri rivoluzionari messinesi anch’essi distintisi nella rivolta settembrina. Entrambe le generazioni di rivoluzionari parteciparono alle campagne del ’48-49 con Giovanni Fronte Ruffino, Giovanni Interdonato, Domenico Piraino, Rosa Rosso Donato, Giuseppina e Paolina Vadalà, e alle rivoluzioni del ’60 con Michelangelo Bottari.
Le battaglie nelle retrovie
Numerose ci sono giunte anche le biografie di benefattori messinesi, dove le opere d’ingegno e d’intuito affaristico, come quelle dei banchieri Giovanni Walser e Paolo Grill, presero il sopravvento sulle gesta eroiche dei campi di battaglia.
Dopo la capitolazione dei Borboni, i messinesi politicamente attivi si gloriarono di avere fra i loro concittadini importanti esponenti della Società Nazionale: lo statista Giuseppe La Farina, il giurista Giuseppe Natoli, l’architetto di fama internazionale Leone Savoja. Questi uomini, appartenenti alla borghesia intellettuale e professionista, agevolarono il diffondersi delle innovative idee mazziniane ed ebbero buona parte nella formazione della nuova costituzione siciliana.
Al passaggio di Garibaldi, il senatore anziano dell’ex regno borbonico Francesco Guardavaglia Bruno ricevette l’incarico di governatore della città. Questi, il 9 agosto 1860, convocò il consiglio comunale che nominò il barone Felice Silipigni primo sindaco «italiano» di Messina.
La nuova amministrazione municipale era formata da tre esponenti dell’aristocrazia fondiaria: Giuseppe Cianciafara, Letterio Carserà Costa e Luigi La Corte; tre della borghesia: Giuseppe Ottaviani, Giuseppe Castelli e Letterio Bianco; uno dell’intellighenzia: Michele Basile. Si trattava degli stessi notabili dell’ex regno delle Due Sicilie, i quali consegnavano alla città una larga serie d’opere pubbliche, proprio come fece il re borbonico Ferdinando II quando salì al trono, nel 1830. Così, la via del Corso diventò la nuova via Cavour.
Fu quella dei liberali del Regno d’Italia una pregevole opera di riciclaggio? [continua…]
Articoli precedenti sul Terremoto di Messina:
- Messina 1908-2018: i 110 anni del terremoto che unì gli italiani più dell’Unità
- 28 DICEMBRE 1908: storia di una tragedia annunciata
- Storia di un superstite del terremoto di Messina: Antonio Barreca
- Messina 1908: “quale spettacolo terrificante!”
- Storia del primo telegramma che annunciò il terremoto di Messina al mondo
(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
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