Riccardo Hopkins, intellettuale di origini inglesi residente a Messina, è particolarmente critico nei confronti degli amministratori comunali e in un pamphlet datato 1882 accusa sindaco, assessori e consiglieri di una gestione scellerata della città, preda di numerose “piaghe”. Gli interventi per contenere le alluvioni e preservare le acque potabili, ad esempio, costituivano un’importante emergenza.
Prosciugamenti igienici o miglioramenti con finalità agricole?
La legge Baccarini del 25 giugno 1882 divideva le bonifiche in due categorie: «Prosciugamenti igienici» e «Miglioramenti con finalità puramente agricole». I primi dovevano eseguirsi a cura dello Stato, i secondi erano completamente a carico dei proprietari, singoli o riuniti in consorzio. Probabilmente l’amministrazione comunale non considerò le arginazioni torrentizie «prosciugamenti igienici», oppure fu semplicemente tardiva negli interventi.
Nelle zone rurali prevaleva la seguente consuetudine: il proprietario del fondo danneggiato doveva sostenere i costi per l’arginazione dei torrenti, con la possibile suddivisione degli stessi fra i proprietari terrieri che si sarebbero avvantaggiati dell’opera. Di conseguenza, frequenti furono le cause civili portate avanti da ricchi proprietari terrieri contro i vicini confinanti, riluttanti a condividere le spese dei lavori di arginazione.
Il 15 settembre 1900 il cavaliere Gaetano Mangano chiamò in causa i vicini Concettina Attanasio, Giovanni Fronte e Luigi Calderone per costringerli a partecipare alle spese di arginazione compiute presso il latifondo di S. Biagio Sottodromo, zona compresa tra il fiume Niceto e il Muto.
Il commerciante e sensale messinese Giovanni Marangolo, proprietario maritale nomine di un fondo sito in Villaggio Salice, respinse le richieste di contribuzione alle spese di arginazione delle acque del torrente Notarantonio presentatigli dai vicini Giuseppe De Grazia e Grazia Ainis.
Il 22 aprile 1895 l’armatore Letterio Bonanno avrebbe dovuto eseguire dei lavori di separazione di «tre penne d’acqua perenne» dalla fiumara del Villaggio Santo, di proprietà del Principe di Scaletta, a favore del vicino acquirente Giuseppe Saccà. Letterio mancò di eseguire i lavori e, nel frattempo, passò a miglior vita. Furono gli eredi Adolfo Bonanno e i coniugi Ida Bonanno ed Emilio Bosurgi, dietro denuncia del Saccà, ad eseguire i lavori nel lontano 1903 .
Emergenze disattese
Anche in città, dov’era difficile riscontrare delle «finalità agricole», mancò l’intervento statale: nel 1865 il sindaco Cianciafara chiese in prestito tre milioni di lire per costruire le arginazioni dei torrenti che attraversavano Messina e la sua periferia, ma poi stornò parte della somma per la prosecuzione dei lavori del Gran Camposanto.
L’esigenza dell’arginazione dei torrenti assunse carattere prioritario dopo la tragica alluvione del novembre 1863 e l’epidemia di colera del 1865.
In mancanza dei contributi del ministero dei lavori pubblici, che si era rifiutato di accogliere le pressanti richieste dei delegati comunali, il sindaco invocò la compartecipazione dei privati al progetto d’arginazione del Torrente S. Francesco di Paola, firmato dagli ingegneri Morabello e Hopkins.
Non tutti gli interessati, però, partecipavano al progetto, cosicchè capitava che un proprietario facesse erigere un’arginazione a tutela del proprio fondo, causando un danno maggiore ai proprietari dei terreni dirimpettai privi di margine. Il signor Sterio arginò a proprie spese il torrente Scala ai margini delle sue proprietà ma, alla prima inondazione torrentizia, i vicini lo citarono in causa per danni. La perizia sui lavori compiuta dagli architetti comunali Trombetta, Hopkins e Morabello confermò il danno causato dall’arginazione di Sterio e ne ordinò la demolizione. Sterio, sentendosi defraudato da tale azione, chiese ed ottenne dal Comune stesso il rimborso delle spese d’arginazione.
Così fu che Sterio restò senza argini, i vicini dirimpettai senza ripari da pericolose alluvioni e il Comune senza soldi.
Nel 1866 venne approvato anche il progetto per l’arginazione del torrente Ritiro: i lavori cominciarono timidamente e solo su richiesta dei privati che vi abitavano, i signori Carserà e Calapaj.
Domenico Calapaj dovette eseguire in proprio i lavori d’arginazione, detti di «pubblica utilità in territorio urbano», e citare in giudizio il Comune di Messina per chiedere, a buon diritto, la restituzione delle spese. Nel 1904 Calapaj risultava ancora insoddisfatto, mentre i bilanci comunali dell’epoca riportavano alla voce «uscite» la spesa per la costruzione degli argini. L’assessore Mario Pirrone, indignato dalle tante irregolarità e preoccupato per i falsi in bilancio, abbandonò l’incarico.
Dunque, pochi interventi furono effettuati per riparare il centro urbano dalle frequenti inondazioni torrentizie, vero flagello nei giorni di piena, concausa del diffondersi delle epidemie: il Corso Principe Amedeo, il più bello di Messina, con vista sulla costa calabra, collocato in una zona popolosa e ricca di fastosi palazzi, veniva abitualmente deturpato dalle alluvioni. Nel 1872 fu approvato il progetto di costruzione di un altro argine del torrente Ritiro, presentato dagli ingegneri Morabello e Hopkins. Per l’esecuzione dei lavori fu indetta la gara d’appalto contenente la condizione di effettuare i pagamenti a lunghissime scadenze, stornando delle piccole somme annuali dalle casse comunali e senza ricorrere a prestiti. La soluzione allontanò tutti i concorrenti dall’asta e vi restò solo la ditta Mangano, la preferita dall’amministrazione cianciafariana.
Già nel XIX secolo, la speculazione edilizia impedisce la deviazione dei torrenti a Messina
I lavori furono sospesi nel 1890 e ripresero agli inizi del secolo successivo per portare la foce a nord del gasometro, attraverso la fabbrica Loteta e parte di quelle Ainis, Ruggeri e Trombetta. In realtà, si arrivò al punto tale che gli argini non poterono essere più costruiti, poichè la speculazione edilizia impediva la deviazione dei torrenti.
Il centralissimo Corso Principe Amedeo, che negli anni Sessanta era stato abbellito con l’inserimento dei viali alberati e dello Chalet (un lussureggiante giardino sul mare), già nel 1904 si presentava «orribilmente mutilato» da un ammasso di case a quattro piani, mentre alla fine del secolo precedente, tra la via Fata Morgana e la fine della Palazzata, c’erano solo la Capitaneria di Porto e la palazzina Bonanno, e, tra la via Fata Morgana e il torrente S. Francesco di Paola, il villino Lella Siffredi.
Il primo e il dieci d’agosto dello stesso anno, due forti cicloni devastarono la città producendo un’insolita grandinata e una pioggia torrenziale, con gravi danni al Corso e ai caseggiati. Anche Morabello utilizzò il suo opuscolo come strumento di critica nei confronti dell’amministrazione municipale, proponendo, come soluzione al problema alluvionale, la costruzione di una galleria del costo complessivo di 186.000 lire. In verità, si dichiarò espressamente pessimista circa l’accoglimento della richiesta, visto lo scempio operato dalla Società Tramways che aveva costruito lungo il viale delle «deformi ed indecenti scarpate», cioè delle sponde ai lati dei binari del tram che impedivano ai pedoni di passare da una parte all’altra della strada.
Altra piaga devastante era rappresentata dalle acque potabili, nella gestione delle quali il Comune di Messina si comportava in maniera altrettanto eccentrica: da un lato acquistava le acque dai privati e le distribuiva direttamente alla città, dall’altro le dava in concessione enfiteutica ai grandi proprietari terrieri, per poi comprarne delle porzioni in caso di penuria.
Il vantaggio era vicendevole: il concessionario poteva sfruttare economicamente le acque, a condizione di sollevare il Comune dall’onere della manutenzione delle condutture.
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(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
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