La fase della maturità artistica dello scultore messinese Giovanni Scarfì, allievo di Giulio Monteverde presso l’Accademia di San Luca (Roma) e le sue opere presso il Cimitero Monumentale di Messina.
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Opere di Scarfì al Gran Camposanto di Messina
Altre due opere scolpite da Scarfì a Roma trovano collocazione nel Gran Camposanto di Messina. La prima appartiene al monumento ai coniugi Garufi (8) e raffigura un Angelo che regge una croce sulla spalla destra, mentre in una mano reca una corona di fiori e con l’altra accarezza una coppia di colombi. Dietro la figura angelica, i resti di due colonne classiche scanalate, simbolo romantico di un’età dal passato glorioso e di un presente in decadenza.
La seconda opera, realizzata a brevissima distanza di tempo, gli viene commissionata da Francesco Marangolo (9) e rappresenta il ricco commissionario ed agente spedizioniere in un elegante busto.
Del 1882 è il monumento a Ettore Bryant Barrett, custodito nel reparto acattolico del cimitero. Esso raffigura una Carità che reca una corona di fiori e, nella parte superiore, l’altorilievo con il volto dell’estinto. I Bryant Barrett, d’origine inglese, esercitavano a Messina la professione d’imprenditori agricoli e possedevano grandi estensioni di terreno a Gazzi, in contrada Fucile. In quello stesso anno Scarfì presenta alcune sue sculture in gesso all’Esposizione Interprovinciale di Messina e si classifica primo fra gli scultori (10).
Nella zona del Cenobio troviamo il monumento ai coniugi Vollaro, eseguito da Scarfì nel 1885. Giovanni Vollaro era un colonnello dell’Esercito Italiano, d’origini palermitane, che aveva combattuto in Crimea. La moglie Leontina Diamin aveva voluto ricordare con quest’opera la scomparsa improvvisa del marito, facendosi ritrarre ai suoi piedi, triste e pensierosa, con una corona di fiori nella mano sinistra, il braccio destro appoggiato sulla tomba. Scarfì si sofferma su ogni particolare: i boccoli dei capelli, le pieghe della veste ottocentesca, i merletti, di cui si percepisce persino la trasparenza (la riproduzione dei merletti sul marmo sembra sia stata molto apprezzata e richiesta nelle sculture di Scarfì). In piedi, in cima alla tomba, il colonnello Vollaro, in uniforme, impugna l’elsa dello spadino. La giubba sbottonata evidenzia il ritorno da una lotta concitata sostenuta in un aspro campo di battaglia.
Sul tumulo la seguente iscrizione:
SULLA TERRA GLORIATA DEI VESPRI NELLA SFIDA MEMORANDA
DEL 12 GENNAIO 1848
ATTACCÒ ARDIMENTOSO
I SACCOMANNI BORBONICI
E CON I PRODI VOTATI ALLA MORTE INNALBERÒ IL TRICOLORE
SUI BALUARDI DELLA TIRANNIDE SE PALERMO È SUPERBA
DI AVERGLI DATO I NATALI MESSINA È GELOSA
DI CUSTODIRE LE SUE OSSA!
Scarfì, nonostante la giovane età, gode di molta popolarità a Messina e le commissioni, specie di monumenti funebri, non tardano ad arrivare.
Il 1888 è l’anno del monumento dedicato ai coniugi Giuseppe Santoro e Carmela Gentile (11). È una moda dell’epoca quella di rappresentare il defunto in un busto e la moglie in un bassorilievo iscritto in un tondo collocato sul fronte del cippo funebre.
La fase della maturità di Scarfì: gli anni ’90
Questi elementi ritornano nell’imponente monumento raffigurante la famiglia Amato: tre busti sopra uno snello tumulo e tre rilievi incastonati in altrettante cavità circolari raffiguranti le donne di famiglia. Il monumento è datato 1891. Il busto in alto a destra raffigura un alto ufficiale con barba e baffi alla «Vittorio Emanuele II». In ostentata evidenza, il piglio austero del militare e le decorazioni al valor militare minuziosamente incise sul petto.
Il monumento Cicala del 1890, ritrae il capostipite della famiglia in un mezzobusto anch’esso dotato di sconcertante espressività. Scarfì riprende ogni minima ruga del personaggio, il viso cadente, provato da una dolorosa malattia, gli occhi assenti. Ecco un’ennesima testimonianza del sogno dell’architetto Savoja nella progettazione del suo Gran Camposanto: la consegna di un’identità post mortem anche alla piccolissima borghesia e la sottrazione della stessa all’anonimato delle fosse comuni. Una nuova sensibilità, di matrice europea. Tuttavia, i costi per acquistare uno spazio presso il Gran Camposanto di Messina non erano affatto «popolari»: una cappella nei portici comportava una spesa di 8.000 lire, un’edicola con tre grandi monumenti artistici (obbligatori) e altri piccoli con ipogeo costavano ben 12.000 lire. Un piccolo spazio recintato con la collocazione di una lapide e di un busto, come quello del Cicala, poteva costare dalle 500 alle 800 lire (12).
Al 1891 risale il monumento a Pasquale Marano, mercante di Messina, per la prima volta un busto volutamente dinamico, non frontale, leggermente reclinato verso destra.
Il gusto per i particolari, il sapore della ricerca, lo studio della mimica facciale sono sempre il frutto degli studi compiuti presso la Scuola romana: si distingue subito, al di là dell’estro personale, il tocco monteverdiano nel trattare la creta (quale lavoro preparatorio al successivo passaggio in gesso) o nell’attaccare il marmo con scalpello e mazzuolo.
Basterà, per dimostrare questa tesi, illustrare le opere di un altro allievo del Monteverde e compagno di studi dello Scarfì, il palermitano Mario Rutelli (13). Si osservino due dei busti scolpiti da Rutelli: il pittore Paolo Vetri e il Duca Alliata di Salaparuta. È un modo diverso di affrontare la scultura, tutta palpiti e movimento, lontana dai canoni accademici, dalla freddezza dell’arte del Thorvaldsen, è proprio di una scuola, quella del Monteverde, del Masini e del Rosa. A recepire questo nuovo messaggio è anche un altro grande allievo della scuola romana, Vincenzo Gemito (Napoli, 1852 – 1929), coetaneo dello Scarfì, distintosi per la naturalezza e la vivacità della sua arte.
Un monumento classico è quello dedicato ai coniugi Ramondini, datato 1892. Lo sguardo austero dei due coniugi ritratti a mezzo busto esprime la fermezza morale e il cipiglio di una famiglia di farmacisti che si è fatta da sè e che, con il duro lavoro, si è guadagnata un posto saldo nella società. In mezzo ai due busti Scarfì collocava un pinnacolo sormontato da una croce.
Nel 1894, per un altro negoziante di nome Francesco Rizzo, Scarfì scolpisce una Madonna che regge una croce, un lavoro semplice, quasi un’esercitazione.
Un capolavoro di Scarfì, collocato al Cenobio, è il monumento al commerciante Cavallaro (14), datato 1896. Raffigura un Angelo, una figura esile ed armonica con due grandi ali che sembrano sfidare la legge di gravità. L’angelo è appoggiato a una colonna classica che sorregge all’estremità il busto del Cavallaro e frontalmente un tondo con il profilo della moglie del defunto. La sinuosità della figura angelica è accentuata dal morbido panneggio che l’avvolge e l’attraversa in un movimento a spirale fino al braccio destro. E questo cammino tortuoso prosegue, idealmente, fino ad armonizzarsi nella colonna, elevata su tre gradoni di diversa altezza. Le ali spiegate bilanciano il movimento del corpo proteso in avanti e intento ad incidere il nome del defunto sulla colonna. Emergono con evidenza i riferimenti allo stile Liberty.
Il negoziante Giuseppe Furnari commissionava a Scarfì la realizzazione del proprio busto nel 1899 (foto n.74). Nello stesso anno Scarfì ultimava il monumento al piccolo Antonino D’Andrea. Il bambino vi è immortalato in veste da marinaretto, affiancato da elementi scultorei tipici del simbolismo funebre tardo-romantico: il tronco spoglio, i colombi, l’edera rampicante.
All’interno di un archetto a sesto acuto è collocato il bassorilievo raffigurante un Angelo che suona la tromba del giudizio, che Scarfì scolpisce per la cappella Macagnini, collocata nel reparto acattolico (foto n. 77).
Al 1900 risale il monumento al cappellano Placido Cardile, presso il Cenobio. La struttura sulla quale poggia il busto raffigurante il canonico ricorda l’architettura del Cenobio e il vicino monumento Cacopardo del Rutelli (foto n. 78). Più sobria la stele poggiante su zampe leonine del monumento a Elvira Sofio.
Un’interessante opera, risalente al 1905, è il monumento Cappuccio-Puglisi, commissionato da una nota famiglia di magistrati. Scarfì scolpisce due colonne di marmo inclinate e vi colloca sopra un putto in equilibrio precario. All’età di cinquantatrè anni l’artista trova ancora nuove soluzioni per le sue opere e, attraverso la rappresentazione di un’evanescente figura angelica, continua a sfidare la pesantezza del marmo. Lo studio scultorio dello Scarfì sembra avvicinarsi a quello del suo maestro Monteverde, volto a sublimare la candida materia, consegnarle un soffio di vita e d’eternità, lottando contro le più rigide regole della fisica (15). È l’idea creativa e capricciosa, dall’apparente semplicità di realizzazione, a distinguere la mano di questo scultore da tutte le altre operanti nel Gran Camposanto.
Accanto alla scultura precedente si trova un’altra sua opera, risalente al 1909: un cippo funebre reggente un busto di donna. Per la prima volta abbiamo, accanto alla scultura, la foto che ritrae il personaggio e dalla quale, molto probabilmente, è stata tratta la figura in marmo: la capigliatura morbida, gli occhi immersi nel volto rotondo, seguono perfettamente i tratti della donna immortalata nella foto.
Fortune alterne di fine secolo
Quelli erano gli anni difficili di un secolo per molti aspetti contraddittorio, anni in cui il governo italiano era del tutto rapito dalle avventure coloniali e dalle strade ferrate, mentre il meridione d’Italia viveva in condizioni d’estrema miseria, col dramma dell’emigrazione, le guerre doganali, gli scontri sociali, la mafia e il brigantaggio.
Tuttavia, la Sicilia godeva dell’attenzione europea per ben altri motivi: le esposizioni d’arte contemporanea, i ricevimenti nelle grandi ville degli imprenditori siciliani, il commercio. Il Re e la Regina, i capi di stato esteri, i più famosi personaggi dell’industria e della finanza di allora s’incontravano a Palermo, Messina, Taormina.
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(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “Mille volti, un’anima. Dal Gran Camposanto di Messina di oggi all’unità d’Italia, un percorso iconografico alla ricerca dell’identità perduta“, [2010].
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8 Giuseppe Garufi era un medico e un componente della Commissione di vaccinazione della città.
9 Appartenente a una facoltosa famiglia di mediatori, agenti spedizionieri e negozianti di prodotti, Francesco Marangolo fu amministratore della Banca Nazionale e Componente della Camera di Commercio ed Arti di Messina.
10 Giovanni Scarfì, vincitore di una medaglia d’argento nella categoria «sculture in gesso» all’Esposizione di Messina del 1882, primo posto fra gli scultori. Allo stesso concorso parteciparono: Carmelo Gatto, collocatosi al 2° posto fra gli scultori, subito dopo Scarfì; Giuseppe Gangeri (5°); Mario Rutelli (8°); Antonio Minasi (11°); Vincenzo Minasi (16°), in AAVV, Esposizione di Messina del 1882, Messina 1882, p. 29.
11 Giuseppe Santoro, avvocato, operò in Via Chiesa dei Marinai e smise l’attività nel 1841.
12 Le somme considerate corrispondono agli attuali 2.000-3.500 euro, mentre le cappelle più costose arrivavano anche agli attuali 30-60.000 euro.
13 Rutelli Mario, scultore, nato a Palermo il 4 aprile 1859 e morto il 4 novembre 1941. Studiò alla Scuola d’Ornato del Valenti, frequentò istituti pubblici e, nel 1875, fu ammesso alla Regia Accademia del nudo. Nel 1879 si trasferì a Roma, dove frequentò la scuola del Rosa e del Monteverde. Fra le sue opere: gli Iracondi, l’Inferno, la Riscossa del Vespro, Amleto, La statua equestre di Vittorio Emanuele, la Statua equestre di Garibaldi, l’Annunciazione, la Virtù cittadina, la Sapienza, la Giurisprudenza, Bambocciata.
14 Salvatore Cavallaro, venditore di cappelli con negozio in Via Garibaldi 53 e 55.
15 Accanto alla cappella di N.S. della Carità in S. Rocco, nei pressi della Galleria monumentale.