Nelle nostre indagini sull’arte, abbiamo visto fin’adesso come gli artisti si fossero posti il problema della storia e della natura e abbiano cercato di risolverlo in forma visiva e allegorica, adottando soluzioni stilistiche, geometriche e simboliche diverse.
Le chiavi di lettura evidenziate finora tramite gli indizi fornitici dalle opere d’arte e da altre fonti complementari, sono state: il fatto storico, il mito e il fenomeno.
Insieme ad un artista della seconda metà del Quattrocento, Sandro Botticelli, esamineremo un nuovo sistema di interpretazione della natura: la bellezza.
L’ideale di bellezza del Rinascimento coincide con l’ideale neoplatonico della conoscenza che, a quei tempi, presso la corte del Magnifico, era molto in voga. Se per Plotino, il fondatore del neoplatonismo, i limiti della conoscenza umana erano superabili attraverso uno stato di estasi dell’anima, il neoplatonismo speculativo di Niccolò Cusano proponeva la teoria dell’intuizione diretta di Dio, interpretabile anche come lettura delle cose divine, della natura. La bellezza diventava la chiave di lettura del mondo, strumento per accedere al sapere massimo.
Per gli artisti classici greci, la bellezza stava nell’adattamento ai canoni di proporzione, nella purezza delle forme. Gli artisti neoplatonici vedono l’ideale della bellezza nelle rappresentazioni artistiche e letterarie dei classici (possiamo anche dire nella storia), loro unico punto di riferimento, oasi unica di cultura di un passato vituperato e annichilito da un oscuro medioevo. La ricerca degli umanisti ha come obiettivo il recupero delle civiltà “principi”, greca e romana, allo scopo d’impossessarsi della loro forma e sostanza.
Non c’è progresso in questa forma di totale adesione al passato: c’è imitazione, ripetizione di temi, rievocazione. Un recupero nostalgico nel nome di una grandezza passata. Solo Leonardo, voce unica alla corte del Magnifico, si oppone a questa forma di rifiuto del presente, che toglie valore e dignità agli uomini moderni, gettandoli nell’oblìo del passato. Certo che il futuro dell’umanità stesse nell’esperienza del mondo contemporaneo e nella scienza, quale osservazione diretta della natura, Leonardo abbandona la neoplatonica Firenze.
SANDRO BOTTICELLI
Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi (1445-1510), chiamato Botticello (appellativo attribuito ai suoi familiari, detti appunto “i Botticelli”) è uno dei più celebri detrattori di Leonardo. Si forma come orafo presso la scuola di Filippo Lippi e da questa esperienza trae una particolare cura per il disegno prezioso, minuto e per il decorativismo. Dopo pochi anni, passa alla bottega del Verrocchio (la stessa di Leonardo) e s’impadronisce non solo di una tecnica coloristica avanzata ma anche di una analisi interpretativa più ricca. Lo si nota nell’Adorazione dei Magi del 1475 (una sorta di manifesto pubblicitario per la famiglia Medici). Dal suo pennello si delinea la tipica figura femminile rinascimentale, poi adottata in tutte le opere del nostro pittore: si tratta di una donna dai lineamenti morbidi e sensuali, velata da una leggera aria di malinconia.
Torna prepotente con Botticelli la rappresentazione del mito nell’arte.
Il pittore fiorentino incarna perfettamente lo spirito del Rinascimento dal momento in cui il mito è di per sé rievocazione del passato, rilancio continuo di un’idea che attraversa ogni spazio e ogni tempo. L’episodio biblico di Giuditta, ad esempio, nell’iconografia quattrocentesca, è interpretato come allegoria della libertà. Un Botticelli ventisettenne ce ne dà una versione con Il ritorno di Giuditta, parte di un dittico insieme alla Scoperta del cadavere di Oloferne.
La vicenda è nota: la bella vedova della tradizione ebraica, Giuditta, escogita un piano per la liberazione del suo popolo dall’assedio degli Assiri: dopo aver indossato un magnifico vestito, si reca alla corte del re degli Assiri, Oloferne, per annunciargli la resa della città. Oloferne in breve se ne innamora e, dopo aver consumato un lauto pasto con ella, si addormenta. Giuditta ne approfitta, gli recide il capo e lo trasporta silenziosa, insieme alla sua ancella, oltre l’accampamento, verso la città di Betulia.
Nel dipinto di Botticelli le due figure si stagliano in primo piano, invadendo quasi tutto lo spazio a disposizione: i vestiti ampi e vaporosi accrescono l’idea del movimento, mentre i passi leggeri, sulle punte dei piedi, rendono l’effetto del passaggio furtivo e silenzioso attraverso l’accampamento. Sullo sfondo la battaglia è ancora cruenta. La serva fedele segue lo stesso percorso della padrona Giuditta, raccogliendosi la veste insanguinata sul grembo, trasportando due borracce legate al polso della mano destra e una cesta sulla testa contenente il capo reciso di Oloferne. Fra le impavide donne c’è un’intesa perfetta, sottolineata anche da una serie di linee curve, da sinistra a destra e dall’alto verso il basso. Le curve in senso contrario segnano il movimento e il pericolo eventuale di un cattivo incontro. Mirabile anche il binomio della curva cesta-spada che ci fornisce un’infinità di indizi: sull’artefice dell’atto, sulla sua fermezza d’animo, sull’immediatezza e sulla ferocia necessaria del gesto. Reciso è il ramoscello d’ulivo che Giuditta regge con la mano sinistra, recisi sono i rami dell’albero lungo il cammino. La tirannide, infatti, è come quei rami parassiti che allignano alla base dell’albero e che non permettono alle fronde di crescere copiose in cima.
Sappiamo che Botticelli, a partire dal 1472, è iscritto alla Compagnia di San Luca, la confraternita degli artisti di Firenze, e che con lui si iscrive anche il figlio del suo maestro Filippo, il quindicenne Filippino Lippi. Nelle opere di questo periodo emerge il suo avvicinamento alla filosofia dell’Accademia neoplatonica, ai simposi del giardino della famiglia Medici animati da Marsilio Ficino e Agnolo Poliziano.
Da qui inizia la grande ascesa di Botticelli pittore, allorquando i Medici diventano i suoi principali committenti. Per loro realizza la grande tela de La Primavera, dedicata al cugino del Magnifico, di nome anch’egli Lorenzo, in procinto di sposarsi. Il tema del dipinto sta nell’esplosione degli elementi naturali facilmente individuabili e leggibili come metafora della vita. Da destra il vento Zefiro, in un incarnato bluastro, gonfia le gote e spinge ondate d’aria verso Clori, qui raffigurata come una donna con abiti trasparenti e leggeri, portatrice delle spore che faranno nascere i fiori. Così, da vicino le si appressa Flora che, con un bel manto ricoperto di fiori, annuncia l’arrivo della bella stagione, il suo volto è angelico e maestoso, ancor più della Venere che campeggia al centro della scena. La Venere è ben augurante con il suo mantello rosso che circonda un grembo gravido, incoronato da piante di alloro la cui radice riporta al nome Lorenzo (dal latino Laurentius, radice laurus=alloro). A seguire, le tre Grazie probabile rappresentazione dei volti diversi della femminilità, comunque concordi fra loro. Sono l’oggetto delle mire del piccolo Eros che aleggia sulla testa di Venere, mentre chiude la scena un giovane Mercurio, con le fattezze del protagonista Lorenzo, che scaccia via le nubi nel cielo con un caduceo. Sullo sfondo, le piante di arance che popolavano i giardini dei Medici, un’altra fonte dei loro lauti guadagni: le arance, all’epoca, erano vitali per i marinai che intraprendevano lunghi viaggi in mare per le loro proprietà antiscorbutiche.
Il neoplatonismo riporta in vita le antiche civiltà greca e romana, riproponendo i temi della bellezza e dell’amore quali virtù universali, capaci di spingere l’uomo verso il cielo o verso gli inferi, in una relativa associazione con la morale cristiana. Ecco il motivo per cui tale indirizzo profano viene tenuto per lungo tempo in vita.
Con questi motivi viene proposta l’opera de La nascita della Venere, allegoria riuscitissima della bellezza che ha pudore di se stessa, sorgente dalle acque e pronta ad essere coperta da Flora mentre, dall’altra parte, il vento Zefiro, in compagnia di Aura, la sospinge verso terra. È la nascita, anzi la rinascita di una nuova bellezza rinascimentale dopo quella classica, una bellezza ricca di humanitas e di grazia.
Dopo una carriera costellata da successi, il suo astro nascente comincia a declinare con l’arrivo di nuovi artisti del calibro di Leonardo e Michelangelo. Muore a Firenze nel 1510.