Nobili messinesi a Castroreale nel XV secolo: caratteristiche, discontinuità e codificazione dei privilegi 

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Questo breve estratto fa parte di una ricerca più ampia condotta sulla società medievale di Messina. Gli argomenti vertono su quattro fulcri principali: Stato, famiglia, società ed economia, ovvero

  • la gestione amministrativa in Sicilia e il caso Messina in particolare;
  • famiglie nobili, borghesi feudalizzate e non, populares;
  • la complessità dell’assetto sociale tra XIII e XV secolo;
  • il fermento delle attività commerciali nella città di Messina e del suo ampio distretto, soprattutto oltre la piana di Milazzo e  l’inserimento di elementi di bassa e media estrazione sociale nel novero degli attori coinvolti nelle iniziative imprenditoriali;
  • il notevole peso del clero nella gestione del patrimonio immobiliare urbano (anche e soprattutto da parte degli ordini francescani).

Il periodo normanno-svevo e la codificazione dei privilegi 

Fino all’età normanna la nobiltà rientrava nell’ambito del classico feudalesimo: il patto sociale con il sovrano e i vincoli del vassallaggio. 

Da Federico II in poi l’equazione nobiltà=feudalità veniva meno a favore della nascita di un profilo non nuovo ma più autorevole del nobilis miles, cioè di una figura inserita in un ordo, un ordine ben preciso e socialmente ben configurato. Con il privilegio di combattere al fianco del sovrano e di poter tramandare il suo titolo per via ereditaria. Questo nuovo ruolo del nobile contribuiva a radicarlo al suo territorio, al suo feudo e al suo incarico, una sorta di «affare di famiglia».

Il legame con il territorio si configurava anche nell’ingerenza in tutte le cariche pubbliche: dalla gestione amministrativa e fiscale all’esercizio del potere giudiziario, della mercatura e della finanza locale attraverso gabelle, licenze, uffici. È in questo ambito che la classe dirigente federiciana riscopre il patrimonio giuridico romano (vedi Costituzioni melfitane), utile a regolamentare gli aspetti economici e la vita sociale del regno. La città dello Stretto, infatti, andava sigillando il suo patto feudale per instrumenta publica, mentre, su quella stessa linea, altre città demaniali raggruppavano i loro privilegi in un corpus normativo, i famosi “libri rossi» (come Castroreale), allo scopo di tutelarli e di tramandarli il più a lungo possibile. Questo processo di codificazione dei privilegi e delle norme locali rappresentava un importante passo verso l’autonomia e l’identità delle città siciliane nel contesto del regno normanno-svevo.


Mobilità sociale a Messina fra XIII e XVI secolo

In questo contesto, si può facilmente pensare che la mobilità sociale si sarebbe ridotta o sarebbe stata fortemente pregiudicata dalla posizione di monopolio di cui godeva la nobiltà. 

Tuttavia, emerge sempre più, a partire dal XIII secolo la figura del burgisi, il borghese arricchito, che viene dal basso e che aspira a vivere more nobilium, entrare negli uffici pubblici, godere degli stessi privilegi del nobile. 

Non si tratta della figura del borghese ottocentesco cui siamo abituati: il burgisi del medioevo non è proprietario dei mezzi di produzione, non vede l’aristocratico o il proletario come antagonisti di classe. Anzi, mette in moto abili politiche matrimoniali per elevarsi socialmente.

Agli inizi del XV secolo, con l’arrivo dei Martini, la Sicilia diventa un grande polo commerciale produttivo (e non una semplice piattaforma di transito verso i mercati orientali e occidentali del Mediterraneo) e le borghesie urbane sono pronte a decollare attraverso la gestione del commercio di derrate agricole, zucchero, lana, seta, prodotti da macellazione (planche) e pescato, l’edilizia civile e religiosa. Di contro, aumenta il divario nei confronti delle borghesie minori, il popolo minuto.

Qui s’innesta la storia nel nostro Simone del Pozzo, già consigliere del re Federico III d’Aragona, poi nominato vescovo di Catania il 17 dicembre del 1378 proprio da papa Urbano VI, in seguito alla deposizione del vescovo Elia, sostenitore del papa scismatico Clemente VII.

In qualità di alto prelato domenicano, difensore del pontificato romano e dell’indipendenza politico-amministrativa siciliana, Simone del Pozzo rappresentava una spina nel fianco nella nuova gestione del regno di Sicilia da parte di Martino il Vecchio, il re aragonese intenzionato a far diventare la Sicilia un suo feudo. 

Per la sua ribellione, il suo allineamento alla Chiesa romana, le sue prediche contro Martino e il suo patto con gli Alagona, Simone fu sottoposto a processo dall’incaricato del re, il giudice messinese Tommaso Crispo, luogotenente del gran giustiziere, per imbastire i capi d’accusa per fellonia (con revoca dei privilegi): furono ascoltati i testimoni delle sue prediche, diretti e indiretti, per raccogliere prove della sua colpevolezza. Dalle deposizioni, emerge l’altissima abilità oratoria del vescovo Del Pozzo (che risulta anche particolarmente empatico, alternando espressioni latine con frasi in francese e in siciliano) e il suo grande coraggio nell’opporsi all’autorità costituita. 


Il culto di Sant’Agata in Sicilia

Le reliquie di Sant’Agata riportate a Catania proprio in quel tempo e contenute in un artistico busto argenteo non solo contribuirono a far rifiorire il culto in Sicilia, ma diventarono anche il simbolo della strenua difesa dell’indipendentismo siciliano su fondamenta cristiane. Contestualmente, il culto della santa venne celebrato anche a Castroreale con l’istituzione di una chiesa a lei dedicata (in un luogo che permettesse il controllo delle comunità latina ed ebraica), seguita dall’installazione di una tavola che la riproduceva nella sua composta eleganza (oggi custodita presso il Museo di Santa Maria degli Angeli).

Certo è che Sant’Agata diventò uno strumento di propaganda politico-religiosa della Chiesa Romana, non solo in terra siciliana. Probabilmente, anche la fondazione dei monasteri dei Minori Osservanti e delle Clarisse a Castroreale (avvenuta nella prima metà del Quattrocento) fu dovuta a un bisogno di maggior rigore, dopo il rilassamento dei costumi degli ordini religiosi cattolici in seguito alla cattività avignonese e all’eccentricità religiosa della città di Messina, in continuo contatto con l’Oriente, sede di un Archimandritato che godeva di un potere temporale (con preti ortodossi che potevano sposarsi e avere figli), con una comunità ebraica molto attiva e integrata e una cattolica molto compromessa con la nobiltà e i suoi affari.

La rotta commerciale Messina-Castroreale era così ben collaudata che facilmente si spiega l’estensione della stessa su altre piazze comuni, come quella catanese, dove operava il vescovo castrense Del Pozzo e dove, solo per fare un esempio, il mercante messinese Giovanni Mirulla vendeva partite di panni proprio presso il monastero di S. Agata.


L’asse Messina-Castroreale

Sulla base dei documenti oggi disponibili, le famiglie messinesi che sfruttavano le risorse castrensi, nel periodo compreso tra il vescovato di Del Pozzo e la cacciata degli ebrei dalla Sicilia (1492), erano le seguenti:

  • Maniscalco
  • Porco
  • Mirulla, poi Marullo
  • Crisafi
  • Gaetani
  • Del Pozzo
  • Bracconeri
  • Perricone
  • Rubeo (o Rosso)
  • Ansalone
  • Faraone
  • Spatafora

Molti di loro abitavano anche a Castroreale e molte famiglie messinesi avevano, a un certo punto della loro storia, valicato la cinta muraria messinese per riversarsi nella piana di Milazzo e oltre, come accadde per gli Ansalone, riportati come un caso esemplare di chi era riuscito a impossessarsi di diverse cariche pubbliche oltre che di feudi, da Messina a Castroreale, e persino a Ganci, prendendo il controllo delle relative operazioni commerciali.

I Mirulla erano un’antica famiglia autoctona siciliana, già nel Trecento ben inserita nel commercio di derrate alimentari e nel corso del Quattrocento molto attiva nel commercio di seta, cotone e zucchero. L’etimologia del cognome, con ogni probabilità, viene dall’originario impiego dei Mirulla nel campo della macellazione (dal siciliano mirudda, «midollo»). I prodotti in questione venivano prelevati sia in Sicilia sia nelle Calabrie e portati nelle Fiandre su galee veneziane. Anche qui, gli abili Mirulla avevano fondato un banco, in collaborazione con i fiorentini Cambini. Evidentemente, nonostante il rutilante commercio, le attività fiorenti e di varia natura operate dal gruppo familiare Mirulla, nessuno di loro era possessore di un’imbarcazione. Per questo si servivano di padroni di barca, come Matteo Rizzo. Quest’ultimo trasportava lo zucchero dei Mirulla (prelevato da Calatabiano presso i nobili Cruyllas) fino a Crotone, dove un certo Aloisio da Salerno (residente a Catanzaro) era pronto a smerciarlo in cambio di carichi di seta. Gli anni Settanta, soprattutto, sottolineano l’incremento dei rapporti con le Fiandre da parte degli investitori messinesi: anche i nobili Antonello Porco, Giovanni Muleti e Giacomo de Alifia diventavano gli intermediari dei Mirulla e dei De Gregorio. Fra l’altro, i Mirulla e i Porco erano parenti e abiteranno presso lo stesso palazzo almeno fino al Settecento: nel 1473 Magnuccia Mirulla, vedova del miles Pietro Porco, vendeva panni fiamminghi e inglesi per un totale di 355 onze e 24 tarì ai nobili Andrea di Agrò e Giacomo Perrone.

Si tratta di famiglie di borghesi feudalizzati, con molte rendite a favore: i Porco, baroni di Protonotaro, avevano ricevuto dai Re Martino d’Aragona e Martino di Sicilia la gestione della tonnara del Tono di Milazzo e il feudo Longarino, mentre gli Alifia godevano dei diritti feudali del mezzo grano sui porti di Girgenti e di Sciacca e del bajulato di Messina, ma praticavano da più di un secolo anche il ruolo di banchieri. 

I Perrone, sarti, mercanti di zucchero e seta, legum doctores, con abitazioni in via dei Banchi, facevano parte anch’essi del patriziato emergente messinese, che, in quegli anni (1447-1465) rivestiva anche i ruoli di Procuratori e Maestri d’Opera della Cattedrale di Messina, prima della «restaurazione». 

Un Tommaso Faraone era tesoriere dell’Ospedale fondato dal defunto Angelo Grande, denominato appunto il Grande Ospedale di Messina. I fratelli Pietro e Tommaso Faraone, nel 1538, nominavano come loro procuratore Scipione Spatafora, concittadino e consanguineo, affinché procedesse all’ingabellazione dei beni dell’abbazia di S. Maria di Gala, appartenente alla diocesi dell’Archimandritato di Messina, operazione di non poco conto, data la vastità dei beni mobili e immobili gestiti dall’abbazia basiliana. I Faraone e gli Spatafora, come i Mirulla con i Porco, perseguirono anche interessanti politiche matrimoniali: una Cara Faraone sposava un Girolamo Spatafora, barone di Mazzarà dal 1504 e deceduto nel 1510. 

I Faraone, gli Spatafora e i Mirulla erano tutti coinvolti nel traffico di frumento, seta, zucchero  e metalli verso le Fiandre, come dimostrano un numero abbastanza cospicuo di documenti notarili.

In più, a Messina, gli interessi delle borghesie emergenti erano condivise con le nationes straniere (genovesi, fiorentine, veneziane, inglesi, spagnole ecc).


Il contratto di enfiteusi: un indice prezioso

Un indice prezioso per misurare il potere raggiunto dalla nobiltà, dal clero e dalla borghesia feudalizzata è il  contratto di enfiteusi perpetua o periodica: sin dal XIII secolo era pratica comune nel nostro territorio e raggiunse il suo apice fra XV e XVI secolo.  

Degli 85 contratti registrati dal capitolo della Cattedrale di Messina negli anni tra il XIII e il XV secolo, 35 riguardano concessioni in enfiteusi di fondi terrieri. Altri contratti di concessione, stipulati a Messina tra monasteri, chiese, ospedali e privati (fra questi i soliti Grande, Mirulla, Faraone, Spatafora, Perrone) si contano nel numero di 94 su 119 in totale. Interessante il dato dell’aumento delle coltivazioni di gelsi, legate alla produzione della seta, e del numero di taverne e di locazioni di case, verso la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento.

Alcune pergamene cinquecentesche provenienti dal Monastero di Gala, in terra di Castroreale (l’abbazia di Gala era un monastero di rito greco gestito dall’Archimandritato di Messina, a partire dal 1133), oggi custodite presso la Biblioteca Regionale di Messina, ci parlano di affidamenti di enfiteusi perpetue per lo sfruttamento di grandi aree territoriali che, altrimenti sarebbero rimaste incolte o dedicate al pascolo. Le informazioni più preziose, comunque, riguardano i nomi dei procuratori degli abati di Gala, sempre presenti e pronti a lucrare, tutti appartenenti all’area iberica: il saragozzano Michele Doria, l’aragonese Michele Campiglio, il madrileno Michele Gonzales.

Il periodo di alta congiuntura economica permise anche ai popolani di farsi spazio, sempre grazie alle trame aperte da feudatari e borghesi feudalizzati: così vediamo il figlio di un notaio genovese, il medico Giovanni Mallone, unirsi al barone di Protonorato, Nicola Porco, per rivendicare i diritti di partecipazione alla vita politica della città (rivolta di Messina 1462-64). In questo quadro, anche la Chiesa si servì dei popolani per garantirsi una presenza capillare nella fase espansionistica del territorio urbano verso nord.

In quegli anni, i burgisi conquistano parte delle ambite cariche pubbliche, così li ritroviamo negli elenchi dei procuratori e maestri della Maramma. Fra questi, ricordiamo Bartolo Perrone, ricco mercante, il cui figlio Nicolò (anch’egli mercante di seta e zucchero) fu lo sposo promesso di Eustochia Calafato (futura santa e ipotetico volto dell’Annunciata di Antonello), e Matteo da Viterbo, proprietario di navi che solcavano l’intero Mediterraneo e grande creditore dell’universitas di Messina: ai suoi capitali i giurati si rivolsero nel 1451 per potersi rifornire di frumento, in seguito a una carestia.


La società messinese nel XV secolo, riepilogo

Quindi, nel periodo considerato, abbiamo una società complessa in cui 

  • i nobiles, già detentori di feudi, rendite, gabelle, decime ecclesiastiche, Consolato del Mare e magistrature minori, costituivano la base del finanziamento privato (e non disprezzavano affatto l’investimento diretto): De Gregorio, Crisafi, De Puteo, Rubeo, Maniscalco, Castelli, Cybo, De Spucches, Denti, Papardo, Ruffo, Saccano, Stagno;
  • i burgisi feudalizzati (armatori, mercanti o ex mercanti, commercianti, artigiani) gestivano affari e lucravano sugli anticipi di denaro:  Mirulla, Spatafora, Perrone, Faraone, Porco, Muleti, Alifia.
  • i populares (professionisti, notai, avvocati, intellettuali, piccoli artigiani) vivevano dell’indotto delle iniziative economiche ruotanti intorno al porto di Messina e aspiravano a incarichi pubblici anche per compensare periodi di difficoltà: Mallone, De Antonio, Calafato, D’Amico; 
  • un clero ampiamente secolarizzato, che, attraverso il cursus honorum del Capitolo della Cattedrale permetteva ai giovani nobiles l’approdo alla Giurazia cittadina e il controllo degli affari della città. 

Sotto Alfonso V, questo schema governativo trovò nuovo vigore perché sostenuto sia dal re, che necessitava dei donativi dell’universitas messanensis per le sue enormi spese e le continue guerre, sia dalla Chiesa di Martino V, Eugenio IV, Niccolò V, Callisto III e Pio II, tendente a favorire le oligarchie dominanti nelle loro mire espansionistiche. 

Dall’esterno, il sistema veneziano delle mude che lasciava pochi margini di sfruttamento del settore commerciale marittimo. Dall’interno, il blocco degli optimates stava per essere demolito dal ceto borghese sostenuto dalla Corona; ma i nostri borghesi avevano come modello proprio lo stile di vita nobiliare. 

Ci vorranno dei regni potenti come la Francia e l’Inghilterra per spezzare il sogno di onnipotenza della Repubblica di Venezia. E secoli di rivoluzioni per spezzare quello dei baroni siciliani, vecchi e nuovi (nobili e borghesi).


 

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