Strutture sociali nella Sicilia del Quattrocento e il caso di Messina

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Nelle maggiori città medievali siciliane si rileva, anche nelle fonti, la distinzione generica di milites, iurisperiti, mercatores. Si tratta di gruppi sociali che vengono percepiti come distinti dal resto della società, in quanto detentori di privilegi.

Se i primi appartengono al cavalierato (feudale prima e urbano poi) al servizio del re, i secondi all’apparato degli operatori di giustizia solitamente istruiti e colti, i terzi fanno parte di un gruppo più folto che si distingue per il possesso di immobili, per le attività commerciali, artigianali, creditizie, di intermediazione. Tutti e tre i profili partecipano, a vario titolo, in tempi e in misura diversi, alla gestione dei pubblici uffici, così come dei beni fondiari e immobiliari urbani ed extraurbani.

A questo panorama, si aggiungono anche gli stranieri, riuniti in nationes, la cui presenza è determinante per l’economia isolana e che insistono così a lungo sul territorio da naturalizzarsi e integrarsi perfettamente. A cosa sono interessati gli stranieri?

Come afferma il padre della storiografia, Fernand Braudel, tre sono i pilastri dell’economia nella storia del Mediterraneo: il grano, il vino e l’olio. Il mercato più redditizio nel Medioevo è quello del frumento, che i mercanti genovesi monopolizzano, con alti e bassi per quasi quattro secoli, con la loro presenza in Sicilia.

Con l’arrivo dei Martini, che confermano i privilegi degli stranieri, la Sicilia smette di essere una semplice piattaforma di transito verso i mercati orientali del Mediterraneo e diventa un grande centro commerciale produttivo. Non per niente entrano in quel fiorente mercato anche gli Inglesi, per la prima volta nel 1431, con il commercio dei panni-lana.

Il sistema fiscale, che, nonostante l’eccentricità della conduzione aragonese, aveva tenuto duro, capitola sotto l’amministrazione del re Alfonso, fin troppo Magnanimo. Il re aragonese affida feudi, rendite sui dazi, gabelle di ogni tipo a tutti i suoi cortigiani e conoscenti, anche al di fuori della Sicilia, non passa a controllo o ispezione i conti degli uffici più redditizi, aumenta i salari dei suoi funzionari a dismisura. Fa arricchire tutti mentre le sue casse languono e per risolvere i suoi problemi deve ricorrere persino a prestiti del re di Tunisi.

Abbiamo visto come la conduzione degli uffici era così pro forma che anche fra gli stratigoti di Messina scopriamo un buon numero di analfabeti. La situazione porta a una sola conseguenza: la libertà di azione dei vari feudatari all’interno dei loro feudi e il predominio delle nationes nel commercio isolano, tutte azioni sostenute dalla Corona a scapito dei ceti emergenti.

Con la fine dei quarantadue anni del regno di Alfonso, il nuovo re Giovanni, nonostante il tentativo di razionalizzazione del comparto amministrativo e fiscale, non regge di fronte al bisogno continuo di capitali e accorda quanto già concesso dal fratello.

In Catalogna, altro regno devastato dalla cattiva fiscalità, inizia una feroce rivolta. In Sicilia, i banchieri, fin troppo esposti, falliscono. I feudatari e anche i borghesi feudalizzati sono troppo complici e ormai finanziariamente dipendenti dall’autorità della Corona, che promette recuperi futuri. Non resta che il popolo minuto, il quale, pur senza capi e senza piani, va alla conquista delle universitates attraverso il mezzo che a Messina è il più congeniale e che «annunzia tra noi la fine del medioevo e l’inizio dei tempi moderni»: la scalata alle amministrazioni comunali a detrimento dei privilegi dei magnati.

Le rivolte dei ceti subalterni nel corso del Medioevo non sono una novità: gli artigiani di Norimberga (1348), i Ciompi di Firenze (1378), i tessitori fiamminghi (1379), i tuchins di Linguadoca (1380), i contadini inglesi di Mile’s End (1381), i popolani di Parigi (1382) ne sono una ricca dimostrazione. Tuttavia, i conflitti sociali europei si risolvono sempre a favore delle classi dominanti.

Quella della città dello Stretto è una rivoluzione legale, programmata da tempo e, sembra, unico caso siciliano di rivolta organizzata, simile, per sommi capi, alla rivolta dei Ciompi di Firenze.

La rivolta dei populares: il caso di Giovanni Mallone a Messina

A Messina è presente un nucleo di popolani consapevole dello stato d’immobilità economica vissuto dalla comunità per le difese delle prerogative dell’aristocrazia, riunita nella giurazia e nella magistratura della città. Rivendica perciò al vicerè e al re parità di condizioni e di peso politico all’interno del senato cittadino. Di fronte all’indifferenza dei rappresentanti della corona aragonese, decide un’azione di forza di fronte al palazzo dei giurati. L’iniziativa, che coinvolge gran parte del popolo minuto per ben diciannove mesi (dal 1462 al 1464), è capeggiata da un medico figlio di un notaio, Giovanni Mallone, che sarà l’unico a pagarne le spese (ma non sappiamo se fu giustiziato o esiliato) di quella che sarà ritenuta una tracotanza e non un diritto.

È il segno di una profonda crisi in seno al governo aragonese e al suo vacillante sistema di interessi clientelari. La crisi, in verità, era già cominciata nel 1440, quando Alfonso il Magnanimo era ancora in vita e la diocesi messinese era in mano all’arcivescovo Gattola, personaggio poco trattato dalla storiografia. I popolari, con un profilo simile a quello del macellaio Angelo Grande e del sensale Ferdinando de Peregrino, che andremo ad analizzare fra pochissimo, e che vivevano dei mille affari intorno alle attività portuali, vedono la situazione complicarsi dopo la caduta della città di Costantinopoli ad opera dei Turchi Ottomani, causa della perdita repentina dei benefici degli attivi commerci con la Romània e il Levante.

L’espansione territoriale della città in direzione nord, già avviata nel corso del secolo precedente, continua nei primi decenni del Quattrocento, con la creazione di nuovi quartieri sorti intorno a una chiesa, segno di un preciso progetto politico e religioso affidato alla comunità dei popolari e non solo alle élites. Questo processo s’interrompe tra il motu proprio del 1440 del re Alfonso a favore dei nobili (che vieta ogni riunione di popolo se non dietro il volere dei giurati) e la restaurazione operata dal viceré Bernardo Requesens, che, con grande lungimiranza, adotterà le richieste dei popolari, seppur riducendole.

Insomma, Messina ha la sua grande opportunità di trasformarsi in una repubblica con un controllo diretto sul vasto e ricco territorio agricolo che va da Tindari a Taormina, con un’estensione sulle coste calabresi per il rifornimento ittico, ma il re non è disposto ad ascoltarla.

Altro dato importante, sempre tratto dalle ricerche del Trasselli, che ha aperto un ampio campo di studi sulla Messina medievale e oltre, riguarda la diatriba sorta tra il Maestro della Zecca e lo Stratigoto, segnale d’allarme di una situazione economica e finanziaria non più sostenibile dal popolo minuto: il Maestro, negli anni Quaranta del Quattrocento, ha assunto circa centocinquanta operai in più, mentre lo Stratigoto afferma che cinquanta lavoranti gli possano bastare. Fra gli operai si leggono i nomi di «sutores, cerdones, caligarii, muratores, maczoni, carpenterii, calafati, carnifices, piscatores et huiusmodi», cioè di tutti quei piccoli artigiani e commercianti che non possono vivere più solo del proprio mestiere e che vent’anni dopo torneranno alla carica capeggiati dal Mallone. Rilevante anche il cambio di denominazione nelle carte: dal 6 gennaio 1450, nei Capitoli di Messina, appaiono gli appellativi di gentiluomini per i nobili (prima solo nobiles) e di populani per la classe emergente dei popolari. I Capitoli presentati da questo gruppo di messinesi in carriera chiedono l’applicazione di una regola paritetica che veda presenti nei vari uffici amministrativi della città lo stesso numero di gentiluomini e popolani. Passando ad esame gli elenchi dei nominativi dei giurati in tempi successivi all’emanazione dell’ordine sovrano, emerge la strana assenza dei popolari, probabilmente non abbastanza forti economicamente per esercitare una carica di giurato non rifiutabile o cedibile una volta assunta. Tant’è che i pochi popolari sono quasi tutti notai.


Tratto da Dario De Pasquale, Antonello da Messina e il suo tempo, ABC SIKELIA Ed., 2022

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