Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1473/81? – Venezia, 27 agosto 1576), fu uno dei più importanti pittori della scuola veneta. Quest’ultima si distingueva, da Antonello da Messina in poi, per un uso originale e qualitativo del colore, mentre la scuola toscana era particolarmente conosciuta per l’abilità nel disegno. Tiziano costituì l’elemento di congiunzione tra le due scuole, poiché seppe superare il momento dedicato al disegno preparatorio ricorrendo a un innovativo impianto coloristico, basato sull’uso dei forti contrasti. La pittura tonale, infatti, accelerava il processo di stesura e rendeva i colori più vibranti.
Fu molto apprezzato, non solo presso la Serenissima, dove risiedeva, ma anche presso le corti di tutta Europa, dove lasciò un’impronta talmente profonda da influenzare la storia della pittura europea, dal Cinquecento al Novecento.
L’artista cadorino, da un’iniziale impostazione rinascimentale con l’uso dei colori netti, passò negli anni della maturità a un colorismo più condizionato dagli effetti luministici, con tonalità soffuse.
La vita
Figlio di Gregorio, un capitano di milizie appartenente a un noto casato patrizio, e di Lucia, venne alla luce nel 1473. Tuttavia, la data di nascita è controversa per via dall’atto di morte che cita un’età di 103 anni, dato contrastante con quello riportato dai biografi suoi contemporanei (Dolce e Vasari), che lo facevano più giovane. Un’altra teoria si basa sulla natura delle sue prime produzioni pittoriche, ascrivibili ai primi anni del Cinquecento. A tracciare questo percorso è il seguente dipinto:
Jacopo Pesaro diventa uno dei suoi primi committenti. Pesaro fu vescovo di Pafo (città dell’isola di Cipro), nonché il comandante alla guida delle venti navi papali impegnate nella battaglia di Santa Maura contro i turchi, il 28 giugno 1502. La grande pala d’altare fu commissionata dal Pesaro come ringraziamento per la vittoria ottenuta e si trova presso la chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari, a Venezia.
La guerra e la peste
Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI. Analisi dell’opera.
L’impianto scenico è piramidale, mentre i personaggi rappresentati hanno una forte caratterizzazione e un dinamismo plastico trascinante: sulla sinistra abbiamo un San Pietro benedicente, con ai piedi le chiavi e in mano il registro delle anime, quindi il santo qui è visto come il punto di accesso al Paradiso e la summa della cultura. Insiste su un piedistallo con decorazioni monocrome, riportanti personaggi della mitologia greca raffigurati in epoca classica (si distinguono un Perseo, un Ercole, una Venere…).
Ai piedi del santo, c’è il Pesaro vittorioso con in mano uno stendardo con le insegne papali. Alle sue spalle, in piedi, papa Alessandro VI sembra sospingerlo con fare accomodante. Mentre lo sguardo del vescovo francescano è adorante, quello del papa è soddisfatto.
Le vesti indossate dagli astanti sono quelli delle grandi cerimonie, mentre Pietro è dimesso e persino in penombra, volto scuro su fondo scuro. La pavimentazione medievale sembra riprendere quella della Pala di Castelfranco di Giorgione, mentre l’elmo brillante poggiato per terra ricorda l’armatura di Federigo da Montefeltro nella Sacra Conversazione di Piero della Francesca.
Un cielo terso e sereno, che termina con delle luminescenze rosseggianti, fa da sfondo a questa scena vista in controluce, quasi a voler comunicare la serenità scaturita dopo la vittoria sui turchi. Sotto questo cielo, è raffigurato un mare scuro con un porto che ospita le imbarcazioni vittoriose che battono bandiera romana.
A destra, sempre sullo sfondo, si notano una statua monumentale e una serie di palazzi, il segno della grandezza del mondo occidentale. L’innovazione tizianesca è subito evidente: l’utilizzo di forti contrasti coloristici, bilanciati anche per creare tensione emotiva; particolare slancio delle figure (plasticismo tecnico); qualità decorativa e ritrattistica; citazioni importanti di grandi pittori rinascimentali.
A Venezia, dove si appoggiava presso lo zio Antonio, Tiziano divenne allievo prima di Gentile Bellini, poi del fratello Giovanni. Venezia si presentava al tempo come la regina del Mediterraneo, grande potenza commerciale e militare, una Repubblica libera dalle pressioni del papato romano. Queste condizioni favorirono lo sviluppo della cultura, unitamente all’invenzione della stampa a caratteri mobili che vide una larga diffusione di testi a cura dell’editore veneziano Manuzio. La rappresentazione dell’immagine della Serenissima fu affidata ai grandi artisti dell’epoca, come Carpaccio, i fratelli Bellini, Lorenzo Lotto, Sebastiano del Piombo, Giorgione, Tiziano, Leonardo, Dürer, Michelangelo.
Madonna tra Sant’Antonio di Padova e San Rocco. Analisi dell’opera.
Sempre al periodo giovanile appartiene un’altra singolare pala, attribuita al Vecellio, ma, poiché di stampo più tradizionalista, lascerebbe qualche dubbio riguardo la paternità.
Su un basso basamento si staglia la figura di una Madonna intenta a reggere un dolcissimo Bambin Gesù sulle sue gambe. A farle da sfondo è un drappo verde scuro, inframezzato da un altro drappo chiaro con ricami dorati. Ai lati, si trovano Antonio da Padova e Rocco, i santi guaritori della peste. Quella del 1510 che si abbatte su Venezia, uccide anche Giorgione, mentre Tiziano, che stava dipingendo gli affreschi della Scuola del Santo, ripara a Padova.
San Rocco riporta i canoni iconografici tradizionali: l’esposizione della gamba e il bastone, mentre un Sant’Antonio imberbe veste un pesante saio a totale copertura e presenta ai suoi piedi i tradizionali attributi del libro e del giglio bianco. L’impianto prospettico non è eccellente e l’impianto coloristico presenta notevoli disequilibri, per questo il dipinto si presenta di difficile attribuzione.
San Marco in trono. Analisi dell’opera.
Il tema precedente è ripreso nella grande pala d’altare raffigurante San Marco in trono per la chiesa di Santo Spirito in Isola (oggi si trova presso la basilica di Santa Maria della Salute). L’opera rievoca l’epidemia di peste che coinvolse la città lagunare e per la quale persero la vita numerosi cittadini, come Giorgione. Sono raffigurati tutti i santi protettori e guaritori: Rocco, Sebastiano, Cosma e Damiano.
In questa pala, Tiziano compone e ricompone parti essenziali del suo stile pittorico: le parti in penombra (il volto e metà busto di San Marco, il colonnato sulla destra); il drappo verde a rigoni; le espressioni caratteriali dei volti; la pavimentazione a scacchiera. Inoltre, l’atteggiamento dei santi Sebastiano e Rocco è serio e compunto, anche compassionevole nel primo; mentre Cosma e Damiano sembrano consultarsi, guardando però in direzioni diverse e allineando i gesti delle mani, una delle quali irrompe sul fondo verde del piedistallo di San Marco. Questa figura compendia tutte le parti in causa, ed è mostrata come il massimo protettore della città lagunare, immagine repubblicana di una Venezia capace di sovrastare persino Roma, la città eterna.
L’eredità di Giorgione
Sappiamo che il giovane Tiziano lavorò fianco a fianco con Giorgione per gli affreschi del nuovo Fondaco dei Tedeschi. Il legame fra Tiziano e Giorgione è storicamente testimoniato sin dall’intervento del primo nella rifinitura del dipinto della Venere dormiente, commissionato a Giorgione per le nozze di Gerolamo Marcello con Morosina Pisani. Tiziano intervenne sul panneggio in primo piano, per dare più movimento e sensualità all’opera del suo maestro.
A Padova, Roma, Ferrara, Mantova e ritorno a Venezia
Durante l’imperversare della peste, Tiziano accolse l’incarico dell’esecuzione di tre episodi dei Miracoli di sant’Antonio da Padova: il Miracolo del neonato, il Miracolo del piede risanato e il Miracolo del marito geloso.
Miracolo del marito geloso. Analisi dell’opera.
In questo dipinto, Tiziano mostra il suo debito artistico nei confronti del maestro Giorgione, infondendo un tono fortemente drammatico alla scena, immortalando un uomo in posizione dominante, impazzito dalla gelosia, con lo sguardo basso e puntato verso la sua vittima, una donna stremata, già ferita al petto e incapace di opporre resistenza.
L’ambiente sullo sfondo è naturalistico, anche se oscuro e trascurabile, un fascio di luce illumina i due attori principali e ne esalta le caratteristiche fisiche, nonché il particolare abbigliamento adottato: capelli scompigliati e folto pizzo, naso puntuto, in linea con la lunga lama appuntita puntata contro il petto della donna, una casacca a grandi righe con maniche a scacchi bianco-rossi, che conferiscono all’uomo un aspetto aggressivo ma anche quello freddo dell’assassino senza scrupoli; un vestito lacerato nella parte superiore, con ampia e voluminosa gonna giallo-arancio per lei (nel medioevo il giallo era il colore del tradimento), il corpo in torsione, il braccio destro alzato in segno di resa, ultimo tentativo per scongiurare l’affondo finale, il volto contratto, la bocca semiaperta, la testa bloccata dalla presa dei capelli da parte del marito furioso.
Sullo sfondo, a destra, infine, una piccola scena con personaggi appena distinguibili nella fisionomia, tuttavia riconosciamo la veste inconfondibile del marito geloso, qui in atteggiamento penitente, in ginocchio e con le mani giunte di fronte al santo: è il miracolo della rabbia svanita e della moglie che torna in salute. Ed è allora che ci accorgiamo dello squarcio nel cielo, del sole pallido che si nasconde tra le nuvole, un timido segno di ritorno alla vita.
Il suo modo di affrontare la pittura, esaltante e innovativo, gli valse le lodi di committenti italiani e stranieri. In più, alla morte del maestro Giovanni Bellini (1516), riuscì a farsi nominare pittore ufficiale della Serenissima, titolo per il quale rifiutò un invito di papa Leone X a trasferirsi a Roma. In questa nuova veste, Tiziano riuscì ad ottenere notevoli privilegi: cento ducati annui ricavati dalle rendite delle imposte sul sale sul Fondaco dei Tedeschi, l’esenzione dalle tasse annuali, la gestione dei traffici di legname dal Cadore, utile per la costruzione delle galee veneziane.
Amor sacro e Amor profano. Analisi dell’opera.
Il famoso dipinto, che diede argomentazioni varie agli intellettuali dell’epoca, possiede un fascino tuttora intatto e permette di indagarne i contenuti con accenti sempre diversi, a seconda dell’epoca attraversata.
Cerchiamo di guardare il quadro addentrandoci nell’animo di Tiziano: Amor sacro e Amor profano sono le due diverse facce dell’Amore, la parte nobile ed elevata e la parte debole e passionale.
Le due donne raffigurate ai bordi della vasca, in posizione simmetrica, rappresenterebbero le due forme dell’Amore: a destra l’Amor sacro, caratterizzato dalla sua semplice e classica nudità, che ne mette in rilievo la bellezza, senza inganni e senza infingimenti, saldamente seduta sul margine del sarcofago, sul quale appoggia la sua mano nuda, mentre cerca di specchiarsi dentro l’acqua in esso contenuta. In mano regge un piccolo braciere che brucia incenso, simbolo di purezza; a sinistra l’Amor profano, l’amore che si nasconde sotto una veste ricca e decorata, in una posizione semisdraiata, a ridosso della vasca, con un recipiente da cucito luccicante sotto il braccio sinistro (il dono tipico da parte del testimone della sposa). Al centro, concentrato nell’immersione di una mano, un Cupido smuove l’acqua.
La donna di sinistra ha un vestito tutto bianco, con una manica a sbuffo di colore rosato, simbolo delle passione in potenza, le mani guantate, segno di distinzione ma anche di distanza, gli occhi rivolti allo spettatore, in cerca di approvazione o di un giudizio. La donna di destra, dai tratti somatici e dai colori molto simili alla precedente, sebbene vista di scorcio, presenta una bellezza e un fascino maggiori: porta su una sola spalla un lungo e luminoso mantello rosso, mentre un panno bianco, scivolando leggermente sul ginocchio sinistro, le cinge parzialmente la vita.
Una lunga serie di dettagli invade il quadro: il piatto d’argento in primo piano, sul bordo del sarcofago, i bassorilievi dello stesso sarcofago, una rosa sgualcita, che ha perso le foglioline lungo il bordo della vasca, potrebbero essere indizi per decifrare il percorso dei futuri sposi, cui l’opera è dedicata.
Il dipinto, infatti, fu realizzato in onore del matrimonio di Niccolò Aurelio, segretario del Consiglio dei Dieci di Venezia, con Laura Bagarotto, patrizia padovana (i cui stemmi familiari appaiono sia sul sarcofago sia sul piatto d’argento poggiato sul bordo del sarcofago).
Il matrimonio si svolse a Venezia il 17 maggio del 1514, ma rischiò di essere pregiudicato da un evento tragico: il padre di Laura era stato condannato dal Consiglio dei Dieci di Venezia per alto tradimento e l’esecuzione capitale avvenne in Piazza San Marco nel 1509. Solo grazie a un processo di riabilitazione portato avanti dal futuro genero Niccolò, i due giovani promessi sposi poterono conciliarsi e presentarsi di fronte all’altare.
Questo quadro, probabilmente, faceva parte del processo di riconciliazione di Niccolò Aurelio con la sua futura sposa. Da un lato, infatti, inneggia all’Amore nelle sue diverse forme, in maniera circolare:
- l’Amor sacro è l’Amore puro, scevro da ogni aspetto materialistico,
- il Cupido è la fase dell’innamoramento,
- l’Amore profano è l’Amore maturo, vissuto, che ha bisogno di tanti accorgimenti e sostegno, ma che tende sempre all’Amore sacro,
- dall’altro esalta la vita (l’acqua, la fontana che irrora la pianta che allude ai nascituri, i fiori, il mirto sulla testa, la bellezza di un corpo femminile e della natura),
- senza trascurare la presenza della morte insita nelle cose (il sarcofago, le foglioline staccate ovvero la decadenza fisica, il mondo classico scomparso che rievoca antichi valori di educazione filiale).
Infine, lo sfondo:
- sulla destra, un paio di conigli costituiscono l’augurio di numerosi figli,
- un cavaliere che si dirige verso un castello potrebbe alludere al ruolo del padre che provvede ad accudire la famiglia;
- sulla sinistra, un sereno paesaggio con la presenza rassicurante di una chiesa,
- al centro di un borgo popolato di case, un paio di cavalieri dediti alla caccia alla lepre, augurio per un matrimonio caratterizzato dal divertimento e dallo svago,
- un gregge composto guidato da un pastore, sono l’assicurazione di una buona discendenza.
Il matrimonio, in effetti, andò bene.
Il dipinto entrò nella collezione di Scipione Borghese nel 1608, per acquisizione della collezione di dipinti del cardinale Sfondrato.
Assunta. Analisi dell’opera.
Questa imponente pala d’altare fu commissionata a Tiziano da padre Germano, priore dei francescani, nel 1516. L’altare della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari era la sua effettiva destinazione. La storia narrata è l’assunzione in cielo del corpo di Maria, cui parteciparono Giuseppe di Arimatea e gli apostoli, invitati dalla stessa Madonna quando l’Arcangelo Gabriele le preannunciò la sua morte.
L’opera è impostata su tre livelli diversi, visibili dal basso verso l’alto:
- al primo, notiamo un turbinio di personaggi dalla corporeità michelangiolesca, sono gli apostoli e Giuseppe di Arimatea, figura di fedele seguace di Gesù, presente sia durante la crocifissione sia durante la deposizione.
- Le figure in torsione al centro, fra luci e ombre, ci collegano direttamente al livello superiore, dove, a dorso di una soffice nuvola sorretta da cherubini, troviamo l’Assunta che, incedendo con passo sicuro, rimane folgorata dalla luce divina e resta con le braccia alzate, come ad accoglierla per trasporto. Intorno a sé, uno stuolo di figure angeliche adoranti conferiscono movimento e dinamicità all’impianto scenico che corre lungo un semicerchio.
- Infine, il biancore di un fascio di luce ci raccorda con l’ultimo livello, il terzo, popolato dalla figura centrale di Dio accompagnato da un angelo e un cherubino, fortemente sottoesposto, con vesti, capelli e barba sospinti dal vento. Le figure sono collocate lungo una diagonale che taglia la cima arcuata, popolata da uno stuolo di cherubini armonicamente disposti e uniformemente illuminati.
Le diverse scene, sono collegate l’un l’altra attraverso la graduazione dei colori, dai più scuri (in basso) ai più chiari (in alto), e da soluzioni scenografiche di spessore: le braccia protese verso l’alto entrano in contatto con lo sgambettare di un cherubino, mentre gli sguardi puntati verso la luce divina amplificano il movimento ascensionale della Vergine, la disposizione degli angeli inoltre isola la figura centrale, potenziandone la resa emotiva.
Pala Pesaro presso l’altare dell’Immacolata Concezione dei Frari. Analisi dell’opera.
All’anno successivo risale la pala commissionata da Jacopo Pesaro, lo stesso della commissione eseguita in gioventù, per l’altare dell’Immacolata Concezione, sempre per la chiesa dei Frari.
Ordinata il 24 aprile 1519 da Jacopo Pesaro, la pala fu inaugurata l’8 dicembre 1526. Il gioco geometrico e compositivo dell’opera fu appositamente congegnato dall’artista per essere inserita nella navata sinistra della chiesa, in modo tale da sembrare una progressione della struttura architettonica già esistente. Cosicché la prospettiva spinge il nostro sguardo da destra verso sinistra, cioè dal gruppo di astanti in basso, la Madonna col Bambino in alto, in perfetta diagonale e in linea con i gradini e il cornicione dello sfondo che digradano verso sinistra, in basso, dove troviamo la figura di Jacopo Pesaro raccolto in preghiera.
Sopra di lui, un cavaliere con lucente armatura che regge l’insegna dei Pesaro e dei Borgia vincitori della Battaglia di San Maura; tra il Pesaro e il cavaliere emergono due figure di pelle scura, uno col turbante uno senza, sicuramente due prigionieri della lotta contro i turchi. Intorno a una Madonna seriosa con il bimbo che giocherella con il suo velo e che sgambetta sulle sue ginocchia, campeggiano delle figure di Santi: Pietro, a sinistra, che porta una chiave allacciata ai piedi, Francesco d’Assisi segnato dalle stigmate e accompagnato dal suo fido Leone con in mano un taccuino (qualcuno dice Antonio di Padova con in mano un libro) assorbito dalla penombra.
Sul solito pavimento a scacchi, visto nella precedente Pala Pesaro, notiamo una serie di personaggi: Francesco, Leonardo, Antonio, Fantino e Giovanni, fratelli di Jacopo.
Mentre tutti sono rivolti verso la scena dell’adorazione, il più giovane degli astanti, guarda lo spettatore: è Leonardo, l’ultimo arrivato del casato, che cerca un contatto con chi lo guarda, ovvero con la realtà.
A fare da sfondo alla pala sono due grandi colonne in ombra, che conferiscono monumentalità alla scena e che, probabilmente, rappresentano le colonne della Chiesa (Maria e Pietro). Davanti alle due colonne, in alto, una nube semiscura regge due angioletti che reggono una croce. Oltre questo piano, un cielo azzurro, con qualche nuvola, fa da contrasto ai colori dei piani antistanti.
Il camerino di alabastro. Tiziano a Ferrara.
Il duca di Ferrara Alfonso d’Este riuscì a coinvolgere il già tanto apprezzato Tiziano per la realizzazione del proprio studiolo personale, il “camerino d’alabastro”. Il lavoro fu eseguito tra il 1518 e il 1524, e consistette in tre grandi tele di soggetto mitologico: la Festa degli amorini, il Bacco e Arianna e il Baccanale degli Andrii.
Anche i Gonzaga riuscirono ad averlo e a inserirlo nel loro ambiente culturale dove esercitavano il loro mestiere letterati come Baldassarre Castiglione. Per loro Tiziano eseguì il Ritratto di Federico II Gonzaga e il Ritratto di Carlo V, in occasione della visita dell’imperatore.
Tiziano ebbe cinque figli, tre legittimi, con la moglie Cecilia Soldani, feltrina: Pomponio, Orazio, Lavinia (dandola alla luce, la madre non riuscì a superare il parto); due naturali: Emilia e un’altra morta infante, nate durante la vedovanza dell’artista.
Malgrado fosse conteso dalle corti più ricche, Tiziano privilegiò Venezia come sede principale del suo lavoro, soprattutto quando il nuovo doge Andrea Gritti (già ricchissimo mercante e comandante militare) intraprese un’opera di “rifondazione” della città. A legarlo erano il contratto con la Serenissima e la sua nuova posizione egemonica assunta dopo il Sacco di Roma del 1527, evento epocale che portò alla diaspora degli artisti, alcuni dei quali trovarono rifugio nella città lagunare (come Pietro Aretino e Jacopo Sansovino, insieme ai quali Tiziano eseguì numerosi lavori).
Quando Carlo V riuscì ad imporsi come re d’Italia, l’imperatore asburgico cercò di trascinare l’artista presso la sua corte, invano. Però ottenne, ai suoi passaggi in Italia, dei ritratti formidabili, che lo consegnarono alla storia non solo come guida e generale, ma anche come uomo e saggio pensatore. Tiziano ne ricavò molte ordinazioni di opere e titoli onorifici, come quello di Cavaliere dello Speron d’Oro.
Passaggio ad Urbino, Roma e ancora ritorno a Venezia
Anche la nuova corte di Urbino, rappresentata dai Della Rovere dopo i Montefeltro, sfruttò l’abilità dell’artista veneto per la sua affermazione. Francesco Maria I Della Rovere e la moglie Eleonora Gonzaga si fecero ritrarre secondo i rinnovati gusti della pittura manierista. A Urbino Tiziano dipinse la sua famosa Venere.
Venere di Urbino. Analisi dell’opera.
Guidobaldo II della Rovere, figlio del duca di Urbino, spinto dal desiderio di possedere un quadro di Tiziano da poter regalare alla giovane moglie Giulia da Varano, sposata nel 1534, chiese al suo agente di contattare l’ormai affermato Tiziano.
Sul modello della Venere dormiente di Giorgione, l’artista cadorino inseriva la figura della protagonista in primo piano, conferendole autorevolezza e immediatezza dell’immagine e del messaggio.
Veniamo subito travolti dalla sensualità di questa Venere, ma anche dalla sua femminilità, concentrata nello sguardo interrogativo rivolto allo spettatore e nel sorriso accennato. Con un gioco di contrasti, Tiziano concentra il nostro sguardo sulle sue nudità (notare come il muro scuro posto alle spalle di lei sia in perfetto contrasto con il candore del suo corpo e cada a piombo esattamente in direzione del suo basso ventre, pudicamente coperto da una mano leggermente ricurva). Nell’altra mano la dea tiene un serto di rose: alcune, come il tempo che passa, avvizziscono e cadono sul coprimaterasso del letto che, scoperto, mostra la sua parte interna finemente rifinita (le rose ritornano, in piccolo, nel disegno del tessuto del materasso, quale simbolo di bellezza e amore carnale).
Il lenzuolo bianco, morbido, sul quale Venere è distesa, è parzialmente rimboccato sotto il materasso, e, insieme ai soffici cuscini, suggerisce l’idea di una sensuale ma scomposta serenità. Venere, con i capelli biondi semiraccolti in una treccia e altri sparsi sulle spalle, è sobriamente agghindata con pochi gioielli: un bracciale, un anello e due orecchini.
In un cantuccio del letto, riposa un piccolo cane, segno di fedeltà. Lungo il pavimento con disegni geometrici lineari, l’occhio corre fino alle due domestiche: una, vista di spalle, ginocchioni e intenta a rovistare dentro una cassa il guardaroba della sua signora, l’altra, in piedi e quasi di profilo, porta su una spalla un elegante vestito, mentre si arrotola una manica per meglio adempiere ai suoi servigi.
Sul davanzale di una finestra inframezzata da una possente colonna, si poggia una pianta di mirto, mentre fuori s’intravede un cielo sereno impreziosito dalle luci di un’alba chiara, sul quale si staglia la pianta di un probabile giardino.
Danae. Analisi dell’opera.
La Danae fu una delle opere di Tiziano più richieste, persino il re di Spagna Filippo II, in occasione delle sue nozze, ne volle una. La produzione artistica tizianesca che ha ad oggetto personaggi tratti dalla mitologia è elevata e segna il passo dei tempi, lungo il percorso della Riforma protestante, che, condannata dalla Chiesa Romana, si muove silente nel pensiero degli intellettuali. Una posizione, che diremmo “disinvolta”, è assunta dal nostro Tiziano nei confronti dell’intransigente Chiesa cattolica. Lo notiamo nelle sue opere religiose eseguite in Italia e all’estero.
Il dipinto fu ordinato al nostro artista da Ottavio Farnese, secondo duca di Parma, Piacenza e Castro.
Su un letto molto simile a quello visto nella Venere di Urbino, si staglia la figura languida e ignuda di Danae, figlia del re di Argo, Acrisio, ingravidata da Giove in una delle sue classiche trasformazioni, questa volta in pioggia d’oro. La presenza di Cupido ci invita a pensare a un innamoramento vero da parte della donna, che si lascia andare, mentre l’ardore la spinge a stringere con una mano un lembo del lenzuolo.
Il complesso pittorico manca di disegno, cosa di cui si lamentava Michelangelo, in un suo soggiorno a Venezia con Vasari, alla vista delle belle opere di Tiziano che apprezzava comunque per il notevole colorismo. La stesura del colore, rarefatto a distanza ravvicinata, diventava molto efficace già a poche decine di centimetri di distanza, pronto ad esaltare la morbida sensualità della figura di donna rappresentata.
Ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese. Analisi dell’opera.
Qualche anno più tardi, nel 1545, Tiziano si recò a Roma chiamato dal papa Paolo III Farnese, per il quale dipinse un grandioso ritratto che aveva come soggetto lo stesso papa e i propri nipoti. Il quadro dimostra il punto di arrivo della tecnica di Tiziano, che sfruttò al massimo la resa coloristica e la densità dell’impasto per esaltare i sentimenti più che le forme.
Il ritratto del papa Paolo III insieme ai suoi nipoti ha il suo magistrale precedente in Giulio II e i nipoti di Raffaello Sanzio. Il dipinto di Tiziano aggiunge un tocco di malizia in più a tutti i personaggi rappresentati, espressione del potere ecclesiastico della Chiesa romana, delle strategie messe in atto per l’acquisizione del potere, delle proprietà, del denaro, dei titoli. Il nepotismo qui prende forma: un vecchio Paolo III è ancora saldamente ancorato alla sua poltrona, come mostra la mano sinistra avvinghiata a un pomello della stessa, ma seguito a ruota dal (falsamente?) riverente nipote Ottavio Farnese, che si prosta con un inchino allo zio mostrando però la spada e nascondendo chissà quali trame in quelle mani guantate. Dall’altra parte c’è Alessandro, in veste cardinalizia, fra i due il più compito e rispettoso. Paolo III è raffigurato come un attempato vecchietto, smagrito, con lunga barba bianca e spalle ricurve, tuttavia conserva un felino guizzo nei suoi occhi aguzzi.
Dal Martirio di San Lorenzo al Gesù Cristo e il buon ladrone. Le ultime opere.
Durante l’assenza di Tiziano da Venezia, la Serenissima si servì delle raffinate abilità pittoriche di Tintoretto e Veronese.
La fine degli anni Cinquanta e tutti gli anni Sessanta del Cinquecento furono caratterizzati da vari spostamenti dell’artista, che inseguiva le committenze delle corti europee.
Le opere dell’ultimo ventennio di vita dell’artista si fanno sempre più intense sia dal punto di vista coloristico sia dal punto di vista compositivo: il tratto è sempre vibrante, le immagini forti, realistiche e ricche di trovate originali. Si parte da spunti prelevati da opere di grandi autori del Rinascimento (Michelangelo, Raffaello in primis), per arrivare a rielaborazioni e accostamenti geniali.
Basterà vedere il Martirio di San Lorenzo presso I Gesuiti, una pala che si muove sul piano drammatico della tortura e della sofferenza. In un’atmosfera diafana e notturna, spiccano le fiamme appena accese sotto la graticola del santo, mentre due boia lo trattengono con forza. Architetture romane fanno da sfondo e contestualizzano storicamente la scena, dando tuttavia l’impressione di un paesaggio surreale, quasi fantasma.
Venere e Adone è un’altra opera in cui appaiono i vezzosi temi dell’aristocrazia del tempo: la caccia, l’Amore appassionato, la bellezza della natura.
La Deposizione nel sepolcro è costruita su uno schema ondulatorio che, da destra verso sinistra, ci porta a contatto con il corpo di Cristo, messo in evidenza da un lampo di luce che gli illumina l’ampio petto e il lenzuolo che lo avvolgerà.
Svolgimento insolito anche del tema del Cristo in croce fra i ladroni, tratto dal Vangelo di san Luca, secondo il quale Gesù parla con il buon ladrone: innanzitutto, qui il ladro rappresentato è uno, la sua dimensione corporea si adegua a quella del Cristo (infatti, si guadagnerà il Paradiso), ma appare più brunita e con uno sguardo disperato, che fa da contrasto con la rassegnazione composta di Gesù.
La Pietà. Analisi dell’opera.
Con una stesura ormai dissolta, il vecchio Tiziano dipinge il suo ultimo lavoro, prima della sua dipartita. Il momento è critico, perché a Venezia imperversa la peste. Tiziano ha già assistito alla morte del figlio e realizza un’opera che possa ricordarlo ai posteri: l’artista ha già un posto designato all’interno della Chiesa dei Frari, non gli resta che lasciare un altro capolavoro. In un contesto architettonico solido e monumentale, di ordine classico, numerose fiaccole bruciano per chi non c’è più, allo scopo di rinfrancarne il ricordo.
Sullo sfondo del catino absidale mosaicato abbiamo un pellicano che si becca il petto, simbolo di resurrezione. Ai lati del quadro insistono due figure mitologiche: a sinistra Mosè e a destra la Sibilla Ellespontica, i due profeti che costituiscono la cerniera tra mondo pagano e mondo cristiano (la Sibilla E. predisse la crocifissione).
Sotto le due statue, rispettivamente, e sotto due enormi capitelli leonini (custodi della fede e del casato), troviamo un cherubino che cerca di sollevare un vaso (con un probabile campione delle acque del Mar Rosso, testimoniante la fede) e un ex-voto che riproduce Tiziano e il figlio Orazio raccolti in preghiera di fronte a una Pietà (la devozione).
Al centro abbiamo delle interessanti figure che fanno da contrappunto al gruppo della Pietà formato da una giovane Vergine e da un Cristo immobilizzato che sembra scivolare lungo le gambe della madre:
- a sinistra c’è una Maddalena che cerca di smuovere l’attenzione di un probabile pubblico che non vediamo;
- a destra, Giuseppe di Arimatea, con il volto di Tiziano, è pronto ad accogliere il corpo di Cristo nella sua tomba, il colore rosato della sua veste è simbolo di generosità.
- Sotto i piedi del Cristo, notiamo un piccolo basamento che riporta, in latino, la scritta: Ciò che Tiziano ha cominciato, Palma con reverenza portò a termine e dedicò l’opera a Dio. L’opera, infatti, fu rifinita dal collaboratore di Tiziano, Palma il giovane, con l’aggiunta del cherubino con la fiaccola, la scritta sul basamento e le cancellature delle riparazioni delle varie tele che compongono il quadro.
Tiziano morì di peste il 27 agosto 1576. Non potè lasciare la sua bottega al figlio Orazio, poiché morì un mese prima di lui, mentre l’altro figlio Pomponio, di lì a pochi anni, disperse tutto il grande patrimonio accumulato dal padre.