Continua da Storia di un superstite del terremoto di Messina: Antonio Barreca
L’animo inquieto di chi prendeva casa a Messina
In città si parlava spesso della particolare robustezza di alcune case di Via Portalegni [oggi via Tommaso Cannizzaro], resistite a tanti terremoti, compreso quello del 1783. In una di queste case poco distanti dal centro, abitava, da lunghissimi anni, la signora Marullo, vedova di un capitano di marina morto in guerra.
Un pomeriggio d’autunno del 1906, l’animo irrequieto del Barreca rimase a meditare davanti ai muri di quella casa e ne ravvisò delle preoccupanti crepe. Impaurito, si recò dalla vedova Marullo e le suggerì, non senza una certa insistenza, di riparare quelle lesioni, temendo per sè e per la vita dei suoi compagni di stanza. La vedova non ne volle neanche sapere: la casa, fatta costruire con grande spesa dal suo defunto marito, era solidissima. Ma il siracusano Barreca non fu dello stesso parere e, nell’impossibilità di approdare a un compromesso, rifece la sua borsa, pagò l’affitto alla vedova e abbandonò la casa.
Andò girovagando per la città, alla ricerca di un’altra abitazione. Dopo qualche ora la trovò in Via S. Camillo, alle spalle della Palazzata e davanti al Palazzo delle Poste e Telegrafi. Dopo una prima ispezione, trovò la casa più solida di quella lasciata e accettò d’abitarvi, mentre i suoi compagni di lavoro ritennero infondati i suoi timori e si rifiutarono di seguirlo.
Il pomeriggio del venerdì del 27 dicembre 1908, Barreca e i suoi tre colleghi Duco, Bianco e Procida smontarono dal servizio. Verso sera, ognuno di loro tornò presso la propria abitazione per trascorrere la notte. Barreca in via S. Camillo, presso la vedova Maria Corica, i tre in via Portalegni presso la vedova Marullo.
La sera prima del terremoto di Messina
Il messo postale Barreca, da buon viaggiatore, aveva istintivamente avvertito dei cambiamenti climatici: «Quella sera Messina sembrava velata di gramaglie, il cielo era plumbeo, una pioggerella veniva giù lentamente riempendo l’aria di foschia, che rendeva opaca la luce dell’illuminazione notturna delle vie della città, che si facevano a mano a mano deserte…». E poiché tale cambiamento lo aveva oltremodo scosso già dal giorno prima, aggiunse: «Mi sentivo nell’animo un non so che d’inquieto e un vago ma infausto presentimento; per questo volli lasciare tutto lo stipendio in famiglia, perchè se qualcosa di sinistro dovesse accadermi nel viaggio, era prudente mettere la famiglia in condizione di poter provvedere ai più urgenti bisogni».
Ore 5:21: il terremoto!
Dopo aver passeggiato lungo la Via Garibaldi, il nostro impiegato postale rientrò a casa alle ore 22 e si addormentò profondamente. Al suo risveglio erano le ore 5:15 e poiché non riusciva più a riprendere sonno, cominciò a fissare la finestra e ad osservare il cielo scuro e piovigginoso: «[…] stavo a guardare dal letto la finestra posta a levante con gli scuri socchiusi. Trascorsi però pochi minuti, vidi balenare attraverso i vetri una luce violacea a guisa di lampo, a cui seguì istantaneamente un formidabile boato e una scossa sussultoria così violenta da lanciarmi a terra, a distanza, dal letto. Intuì che mi trovavo in balìa del terremoto e senza pensare ad altro, come stavo, in camicia, diedi un balzo e mi rifugiai sotto l’architrave di una porta, il cui muro aveva lo spessore di circa un metro. Quel pronto rifugio, fu la mia salvezza! Restai qui inebetito, esterrefatto, privo di favella, e con gli occhi fuori dall’orbita guardavo nella tetra oscurità lo spettro della morte. La terra era un continuo sussulto, i muri della casa oscillavano fortemente e un fragore assordante mi giungeva alle orecchie, i vicini palazzi precipitavano e col terrore della morte imminente, e di quale morte, aspettavo quasi certamente di essere travolto dal crollo dei muri della mia casa e di sprofondare nell’abisso delle macerie. Sentivo intanto le grida strazianti della padrona di casa e di una sua nipote che mi chiedevano aiuto, chiuse in una camera attigua. A quel grido mi faccio coraggio, e mi muovo nell’oscurità tentando a stento di aprirmi il passo tra i mobili rovesciati a terra per avvicinarmi all’uscio della camera donde venivano le grida; riesco ad afferrare la maniglia della porta, dando una forte spinta ma la porta non si apre, perchè l’architrave abbassatosi impediva l’apertura della porta. Di fronte a questo ostacolo insuperabile, con un supremo sforzo disperato mi provo di sfondare la porta con tutte le forze a colpi di spalla; la porta finalmente si squarcia, mi apro un varco e raggiungo le due signore che seminude e lagrimanti cercavano scampo. Averle raggiunte e vederle in quello stato servì per me ad infondermi un coraggio sovrumano per riuscire a salvarci tutti e tre.
«Cominciai a confortarle e a rincuorarle, le presi per un braccio trascinandole a tentoni per cercare l’uscita, che trovammo fortunatamente attraversando la cucina che dava l’adito ad un terrazzino, a cui faceva capo la scala d’accesso alla casa. Come Dio volle, scendemmo al portone e ci fermammo colla speranza di poterci salvare in quel posto. Ma eravamo seminudi e si moriva dal freddo. Come fare? Ritornare in camera, significava esporsi ad una morte sicura: uscire di casa in quello stato di nudità, non conveniva nemmeno. Allora mi armo di coraggio, rifaccio la scala e la via percorsa, entro nella camera mia, riesco ad afferrare lo scatolo dei fiammiferi trovato sul comodino, accendo e vado raccogliendo sparsi per terra gl’indumenti miei e quelli delle due signore, ridiscendo subito e ci vestiamo alla men peggio in attesa di trovare una via di scampo da prendere col far del giorno.
«Apro il portone per dare uno sguardo alla situazione al di fuori della casa ed ahimè! Quale spettacolo terrificante mi si presenta alla vista! La via San Camillo era scomparsa! Una montagna di macerie dei palazzi crollati l’aveva completamente sepolta e non dava adito al transito. Da ogni lato si udivano grida disperate di gente attanagliata tra le rovine che implorava aiuto, chiamando chi il babbo, chi la mamma, chi i figli; ma nessuno si vedeva accorrere, e chi l’avrebbe potuto? Si vedeva lontano sollevarsi dense colonne di fumo avvolgente gigantesche fiammate sviluppatesi dall’incendio delle masserizie e delle suppellettili cadute dagli appartamenti diroccati, e a cui aveva appiccato fuoco il gas sprigionatosi dalle tubature infrante. L’aria tutta invasa da accecanti nuvole di polvere sollevatasi dal diroccamento dei muri caduti in frantumi soffocava il respiro e una pioggia incessante veniva giù a rendere più spaventosa la vista di quell’indescrivibile cataclisma; in cui l’animo più forte non avrebbe potuto resistere, nè avrebbe potuto concepire speranza di scampo, precluso tutto all’intorno da insormontabili ostacoli».
Dopo aver fatto coraggio alle donne, Barreca prese il mantello e la valigetta, e si allontanò. Dal momento che ogni traccia della topografia stradale della città era sparita, l’impiegato postale ebbe notevoli difficoltà ad orientarsi. Muri spezzati, davanzali, stipiti, mensole di pietra, travi di ferro contorte, mobili capovolti, un groviglio di fili telegrafici e telefonici impedivano il passo. [continua…]
Articoli precedenti sul Terremoto di Messina:
- Messina 1908-2018: i 110 anni del terremoto che unì gli italiani più dell’Unità
- 28 DICEMBRE 1908: storia di una tragedia annunciata
- Storia di un superstite del terremoto di Messina: Antonio Barreca
- Storia del primo telegramma che rese noto il terremoto di Messina al resto del mondo.
(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
Se vuoi ricevere il mio libro GRATIS in formato eBook, lasciami la tua email qui o iscriviti alla mia newsletter.