Che senso ha, all’inizio del terzo millennio, parlare ancora di tradizioni popolari?
E’ un patrimonio costituito da usi, costumi, consuetudini che oggi non hanno più valore, quasi un inutile fardello che la società moderna, ormai proiettata verso un futuro supertecnologico, si porta avanti distrattamente e con fatica?
Cosa significa oggi dunque il termine “tradizioni popolari” e perchè si continuano a studiare?
Fu l’inglese Thoms che per primo condusse studi sistematici sulle tradizioni e i costumi dei popoli europei nella prima metà del XIX secolo e che coniò e diffuse il termine folklore. La ricerca dell’epoca si avvaleva dello studio delle credenze magico-religiose dei popoli a cultura superiore, operato, ad esempio, da J. Frazer e A. Lang, sistema oggi abbandonato a favore dello studio dell’etnologia dei popoli la cui evoluzione civile ha raggiunto il livello delle società occidentali attraverso tutti gli aspetti della vita quotidiana: abitazioni, usi, costumi, tecniche, arti popolari, racconti, fiabe, leggende, poesie, canti, danze, balli, credenze, passatempi, onomastica, ecc.
Tutti i dati raccolti costituiscono il patrimonio culturale dell’umanità, somma dei patrimoni culturali di ogni nazione. I moderni metodi di ricerca si servono di comparazioni fra aree locali, regionali o nazionali. A sottolineare l’esistenza di una sorta di minimo comune multiplo fra i vari popoli esistenti sulla terra fu senza dubbio la scuola inglese, la quale, prima attraverso il positivismo di Spencer, poi attraverso l’evoluzionismo di Darwin, studiò dei metodi comuni che potessero decretare che l’uomo fosse l’animale più completo esistente all’interno di una società in costante progresso scientifico, biologico ed economico1 .
Uno dei maggiori esponenti del metodo comparativo fu l’antropologo inglese Edward Burnett Tylor2 che basò la sua teoria quasi esclusivamente sul concetto di cultura quale elemento indicatore del maggiore o minore grado di civiltà raggiunto. In questo senso distinse popoli “inferiori” da popoli “superiori” e che taluni fattori di regresso presenti nelle società civilizzate erano solo delle sopravvivenze di un passato primitivo. Ma ciò che più conta fu che Tylor, per primo, attraverso il saggio Su di un metodo per lo studio dello sviluppo delle istituzioni del 1889, fece ricorso alla raccolta statistica dei dati, imprimendo un carattere scientifico agli studi di carattere antropologico.
Dalla scuola inglese, attraverso la lezione di un allievo del Tylor, il Marett3, si compì la formazione del più noto demologo italiano dopo Pitrè, Giuseppe Cocchiara4. Questi accolse l’opposizione del Marett alla teoria tyloriana delle sopravvivenze e ne formulò una nuova interpretazione alla luce dell’idealismo e dello storicismo crociano, secondo il quale ogni elemento della storia passata è tuttavia storia contemporanea, vive nello spirito delle cose e degli uomini.
Studiare le tradizioni popolari in Sicilia significa ricercare le antiche ed alterate tracce di culture di diversa origine ed estrazione che si sono amalgamate in maniera mirabile ed originale fino a confluire nell’unica ed inconfondibile cultura siciliana5 .
1 Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Zanichelli, Bologna, 1991
2 E.B. Tylor (1832-1917), inglese, autore di Primitive Culture (Cultura primitiva), 1871
3 Robert Ranulph Marett (1866-1943), autore de The Treshold of Religion (La soglia della religione), 1909, professore di antropologia a Oxford.
4 G. Cocchiara (1904-1965), autore de Il mito del buon selvaggio, 1948; de L’eterno selvaggio, 1961; Il paese della cuccagna, 1956; Il mondo alla rovescia, 1963; Storia del folklore in Europa, 1952
5 S. Correnti, Storia della Sicilia come storia del popolo siciliano, VII ed., Clio, 1995, pagg. 12-21; Rigoli, Il concettodi sopravvivenza nell’opera di Pitrè e altri studi di folklore, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1963; Giuseppe Bonomo, Pitrè, la Sicilia, i Siciliani, Sellerio, Palermo, 1985.
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