In questo lungo ed affascinante viaggio certamente la sola Storia non riuscirà a soddisfare gli innumerevoli interrogativi che ci porremo, cosicchè dovremo fare ricorso ad altre scienze, specie all’antropologia culturale.
Il concetto della centralità della cultura europea rispetto alle altre culture cosiddette primitive, definito comunemente etnocentrismo, è stato fortemente intaccato dagli studi di antropologia culturale.
Uno strenuo difensore dell’etnocentrismo, ad esempio, fu l’etnologo italiano Ernesto De Martino1 che, con il Croce, portò avanti l’idea dell’importanza della storia, come “storia dello spirito”, contro l’inutilità della scienza nell’esperienza umana. La storia poteva essere classificata secondo un metodo scientifico, ma non poteva diventare scienza essa stessa mancandole i requisiti di infallibilità.
Tuttavia, anche gli etnocentristi dovevano ammettere che elementi della cultura materiale potevano comunque migrare da un contesto socioculturale ad un altro.
Altri antropologi, detti diffusionisti, hanno rivendicato l’identità e l’originalità anche delle culture non-europee che non potevano senz’altro essere valutate con un metro storiografico o sociologico di matrice europea, ma viste alla luce di fattori ambientali, sociali, culturali propri della zona considerata. Ad esempio la teoria marxista del materialismo storico non può essere applicata alla struttura sociale degli antichi abitanti dell’America Latina. Cosicchè nuove scienze si sono sviluppate, favorite dalla larghezza di vedute dei nuovi storici e dall’impossibilità di leggere comportamenti, fatti ed eventi umani con i metodi tradizionali.
Gli antropologi sono soliti distinguere i meccanismi di inculturazione, ovvero di perdita dei valori culturali propri di un popolo per via di un isolamento volontario o involontario o per un processo di lenta assimilazione ed interiorizzazione della cultura di un’altra società, da quelli di acculturazione, ovvero di acquisizione di cultura da parte di un gruppo etnico primitivo al contatto con un gruppo più evoluto2.
La Sicilia ha subito notevoli fenomeni di inculturazione e acculturazione. Pertanto, per ricostruire la storia del popolo siciliano dobbiamo sfrondare dall’antico ed originale ceppo etnico, una buona parte di quei valori culturali appartenenti ad altre etnie.
Per compiere questa straordinaria e difficile operazione dobbiamo ricorrere alle fonti storiche.
Il problema delle fonti è stato a lungo dibattuto da vari studiosi. Esistono fonti che testimoniano inconsapevolmente la presenza o l’attività umana chiamate avanzi o reliquie e fonti che l’uomo ha lasciato coscientemente, chiamate testimonianze che per ragioni di studio possono suddividersi in:
1) narrative (cronache, diari, biografie, epistolari, ecc)
2) documentarie (rogiti notarili, atti pubblici, sigilli, monete, ecc.)
3) artistiche (leggende, proverbi, canti, opere d’arte, ecc.)
4) folkloriche (feste religiose e profane, matrimoni, funerali, proverbi, artigianato, ecc.)
4) linguistiche (lingue e dialetti)
5) tecniche (misurano il grado di civiltà sulla base della qualità delle fonti)3.
Fra queste, tutte ugualmente utili per il raggiungimento del nostro fine di ricerca, ci occuperemo soprattutto del terzo e del quarto gruppo, ovvero delle fonti artistiche e delle fonti folkloriche.
Abbiamo detto che il complesso delle tradizioni popolari prende il nome di folklore e che esso è il banco di prova delle tante scoperte della storiografia. E’ vero infatti che esistono parallelismi fra i cori degli antichi greci e i “lamenti” delle processioni del Venerdì Santo in Sicilia, così come dimostrato dal Romagnoli4 , di alcune superstizioni che derivano direttamente da culti e miti dell’antica Grecia come ben argomentano il Ciaceri5 e il Pace6 .
I primi risultati ottenuti nell’ambito della ricerca etnografica siciliana da Giuseppe Pitrè furono mostrati al grande pubblico nell’occasione dell’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-92. Tale esposizione nazionale, fortemente voluta dalla famiglia Florio e da buona parte degli esponenti dell’imprenditorialità italiana, mirava ad evidenziare l’importanza raggiunta dall’industria. Non solo: la politica imperialista di re Umberto e del Presidente del Consiglio Crispi accentuarono questa tendenza, mostrando un chiaro interesse verso l’industria pesante rivolta ai trasporti e alla guerra. Non per nulla l’Esposizione di Palermo accolse anche padiglioni dedicati alle macchine che riproducevano oggetti in serie, automobili, imbarcazioni e prodotti destinati a un consumo di massa, la Mostra Eritrea dedicata alla conquista coloniale, la mostra delle arti indigene o della lavorazione del ferro battuto secondo lo stile Liberty7 .
In migliaia di metri quadrati di esposizione, una piccolissima parte fu dedicata al folklore siciliano, per volontà dello studioso Giuseppe Pitrè, il quale dovette difendere continuamente, anche durante l’allestimento, la sua idea di riportare agli occhi dei visitatori della mostra “le manifestazioni più importanti e più curiose della vita fisica e psichica” del nostro popolo8 . A difendere la validità di tale progetto intervenne anche il Salomone-Marino che dedicò un articolo sull’arte dei contadini in difesa del Pitrè, così come il Ragusa-Moleti. La vera novità di quella particolare ed innovativa mostra che scatenò gli interessi di studiosi ed appassionati, fu la catalogazione di materiale etnografico con la classificazione dei vari oggetti secondo il loro nome dialettale e la relativa traduzione in italiano, l’uso, la provenienza e il proprietario, di cui l’unico precedente era costituito da un’analoga mostra compiuta all’Esposizione industriale di Milano dallo stesso Pitrè9.
Questa metodologia, di cui Pitrè è il padre, ha puntato ad evidenziare come reperti, consuetudini e tecniche si presentino come un ponte tra passato e presente, documento storico ma anche patrimonio dei contemporanei. Così tantissimi altri dati, che potrebbero apparirci banali poichè entrati nel nostro vivere quotidiano, sono portatori di importanti significati. Basti pensare allo scialle nero sulle spalle delle nostre nonne, agli orecchini di alcuni contadini, ai tappeti fatti con gli stracci, all’arte della maiolica, all’arte del legno intarsiato, all’arte dolciaria.
Sono tutti fattori che sottolineano cambiamenti antropologici: la moltitudine degli attrezzi da lavoro del calzolaio testimonia l’elevato grado di elaborazione tecnica raggiunta da tale categoria, nonchè il raggiungimento di una certa stabilità economica che gli permettesse di recuperare le somme spese per l’acquisto degli stessi attrezzi e di altri materiali. Le donne che si riunivano attorno ai telai esercitavano non solo un lavoro, ma anche un’arte, quella della filatura che faceva ricorso a trame e disegni dettate dall’originalità, dell’estro e dalla fantasia, inoltre si assisteva a un grande momento di aggregazione fra donne di diverse generazioni ed era l’occasione per tramandare antiche nenie, canti, esperienze o semplicemente alcuni pettegolezzi.
Tratteremo in questa sede le fonti specifiche che ci permetteranno di avere una visione più ampia ed aggiornata della cultura e della tradizione popolare siciliana legata all’area territoriale di Barcellona Pozzo di Gotto.
E’ giusto ricordare che in passato storici barcellonesi quali Filippo Rossitto e Nello Cassata hanno considerato più volte l’argomento, senza tuttavia giungere, attraverso le molte memorie personali, a teorie aventi carattere di scientificità. Ne apprezziamo, comunque, il carattere di testimonianza diretta.
Contrariamente ai lavori più recenti condotti nell’ambito degli studi di Etnomusicologia dai professori Mario Sarica e Giuliana Fugazzotto10, così come per le ricerche antropologiche del professor Aurelio Rigoli. Si tratta, infatti, di copiosi documenti, testimonianze originali e interessanti confronti che costituiscono un altro dei punti fermi sui quali basarsi per ricostruire la storia della nostra città. Basti pensare che persino il ciclo della semina, mietitura e trebbiatura, ad opera delle squadre (opre) di mietitori e raccoglitori (liaturi e cugghituri) che si spostavano a piedi e sui muli da una parte all’altra della Sicilia, erano momenti di particolare significato antropologico, di comunicativa sociale, di fatica, di soddisfazione ed anche un rito consacrato con balli, canti, invocazioni che, sapientemente ricostruiti, ci danno l’idea dell’importanza di quel mondo perduto11 .
Ricostruire le tradizioni popolari di Barcellona Pozzo di Gotto significa recuperare la memoria dei nostri padri, inevitabilmente contaminata dalle svariate tendenze e influenze italiane, europee ed extraeuropee che avvicinano sempre più la società odierna verso il tanto discusso “villaggio globale”.
Siamo pronti, dunque, a un cambiamento epocale che metterà a dura prova ancora una volta le nostre tradizioni e che ci proietterà in una società nuova e contraddittoria, in cui elementi antichi si mescoleranno a quelli più recenti. La trasformazione conseguente sarà simile a quella vissuta già dai nostri nonni che tornavano dalle Americhe carichi di nuovi macchinari, a testimoniare il nuovo stato sociale raggiunto: la macchina da cucire, il grammofono, la macchina per il gelato e altre diavolerie che minacciavano l’artigianalità del prodotto siciliano e l’estemporaneità dell’artista e che aprivano le porte alla riproduzione in serie e al consumo di massa.
Nonostante l’industria e nonostante le innovazioni (e nonostante Internet, oggi), le tradizioni popolari siciliane sono sono ancora ben presenti e salde, anzi, sono uscite dal ristretto campo territoriale nazionale ed europeo, raggiungendo una diffusione mondiale. Anzi, c’è da ritenere seriamente che la cultura siciliana continuerà ad avere un ruolo interessante, dotata com’è di eccezionali elementi di spontaneità, freschezza, forza ed originalità.
Scoprire le nostre radici storiche ci servirà, come afferma Huizinga, a sapere bene dove siamo e cosa vogliamo, a conoscere il mondo e la vita “nel loro eterno significato, nella loro eterna tensione e nella loro eterna quiete.”