La Declaratio quis sit rebellis di Enrico VII s’inserisce nello spazio politico dell’Italia del primo Trecento, ovvero del conflitto tra impero e papato avignonese, tra ghibellini e guelfi.
Nell’aspra contesa fra il re di Francia Filippo il Bello e il severo papa Bonifacio VIII, il primo ne usciva assoluto vincitore, designando il declino della Chiesa medievale e delle sue pretese teocratiche.
Questo processo raggiungeva il suo apice nel 1305, con il trasferimento del trono papale ad Avignone grazie all’intermediazione di Clemente V, ex arcivescovo di Bordeaux. Era il trionfo della monarchia francese.
In questo contesto storico si articola la storia che stiamo per trattare e che vide protagonista il sovrano Enrico VII di Lussemburgo. Elevato al soglio imperiale nel 1308 dai feudatari tedeschi, Enrico decise di portare avanti il programma di restaurazione del casato svevo e si propose come paciere tra ghibellini e guelfi. Grandi furono le illusioni suscitate dalla sua discesa nel territorio italico continuamente sconvolto dal disordine politico. Dante Alighieri lo celebrò quale novello Mosè.
Niente di più lontano dalla realtà: dopo aver ricevuto la corona regia in Sant’Ambrogio nel 1311, Enrico destò i primi sospetti sia nel pontefice che in Firenze e fra i guelfi toscani. Improvvisamente, dovette fare i conti con una Milano ribelle e, privo di forze sufficienti, dovette rinunciare all’originario ruolo di paciere e patteggiare per la causa ghibellina, ricorrendo al tradizionale uso della violenza. Firenze, forte ormai dell’appoggio di Roberto D’Angiò, decise di opporglisi duramente e, solo evitando lo scontro diretto, Enrico potè arrivare a Roma per farsi incoronare in San Giovanni in Laterano nel giugno del 1312.
Le città che si erano opposte all’imperatore furono private del mero e misto imperio, della giurisdizione e del governo. I cittadini si videro sottratti i privilegi, le immunità, i feudi e i diritti concessi da Enrico e dai suoi predecessori. I loro beni poterono essere sequestrati, le loro case distrutte. Chi fosse venuto in loro soccorso avrebbe subito la stessa sorte.
Di fronte a questo estremo stato di cose, le città decisero di resistere. Non era soltanto un istinto di sopravvivenza, era una precisa posizione politica garantita dal diritto naturale. Enrico cercò di legittimare la sua accusa di ribellione rivolta alle città punite promulgando due leggi con effetto retroattivo: l’Edictum de crimine laesae maiestatis e la Declaratio quis sit rebellis. Con queste l’imperatore chiedeva la sottomissione delle città ribelli e pretendeva le scuse da parte dei loro rappresentanti. Quest’ultimi si negarono per sottrarsi all’accusa di lesa maestà e ribellione. Toccò ad essi dimostrare che resistere all’imperatore fosse un atto lecito. La difesa, nata dalla consultazione di alcuni giuristi, fu costruita su due punti principali:
1. l’esercito imperiale era stato il primo ad attaccare le città, senza alcun preavviso;
2. il papa francese Clemente V aveva accordato ai sudditi cattolici la capacità di resistere ai propri superiori in caso di attacco.
Da ciò conseguiva che se i sudditi si fossero rifiutati di eseguire un ordine dell’imperatore avrebbero dovuto essere citati presso il giudice superiore, ovvero il vicario di Cristo; che la “ribellione” ad Enrico, in quanto successiva al suo attacco, era da considerare “resistenza” lecita, poiché riconosciuta dall’autorità papale e dal diritto naturale (risposta di Clemente V contenuta nella costituzione Pastoralis cura).