1884: nascono i cimiteri rurali a Messina

Gran Camposanto di Messina, monumento Cutugno.
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Dal Gran Camposanto ai cimiteri rurali: una scelta quasi obbligata

Il Camposanto di Messina era la più grande opera pubblica della città e il più grande cantiere aperto. Subiva modifiche quasi giornaliere e la sua estensione cresceva anno dopo anno grazie a una serie di oculate espropriazioni.

Dopo quella Irrera del 1865, toccava al fondo Palermo nel 1872. Per ottenerlo il Comune ricorreva a un prestito di 215.000 lire presso la Cassa di Risparmio e una delle prime preoccupazioni dei direttori dei lavori era quella di proteggere le opere monumentali dalle infiltrazioni delle acque piovane e torrenziali. Infine, si decideva di aumentare il prestito a 233.000 lire, devolvendone 8.000 alla costruzione di una tettoia per la protezione delle opere d’arte. Il problema delle infiltrazioni, però, non veniva risolto così facilmente. A distanza di quattro anni da quell’ultima soluzione, gli ingegneri demonizzavano l’operato delle ditte appaltatrici.

Nel luglio del 1875, si praticava l’acquisto del fondo Arigò, sito nella parte meridionale del cimitero. Il fondo, di quattordici are, si presentava diviso in due zone: la prima andava dalla casa colonica dell’Arigò e aveva come confine il gradone della cappella di S. Rocco, la seconda dallo stesso gradone fino all’angolo nord-est della casa colonica del Municipio, nel vico S. Cosimo.

Viste le onerose spese gravanti sulle casse comunali, la giunta capeggiata dal sindaco Cianciafara decideva di dar vita ai cimiteri periferici, meno costosi in termini di gestione e capaci di garantire buone entrate per sostenere i costi dello stesso Gran Camposanto.

Il cimitero acattolico di Messina

Nel corso dell’espansione territoriale del cimitero, non ci si dimenticava di dedicare un’apposita parte agli acattolici, per soddisfare le esigenze dei numerosi stranieri di religione protestante presenti in città. La questione, però, aveva dato luogo a una lunga controversia. Il consigliere Oliva non aveva ritenuto opportuno dividere il territorio in zone riservate, perché un cimitero avrebbe dovuto rispettare l’unità familiare che vi era tra le famiglie in vita. Il collega Carnazza, invece, s’era dichiarato a favore delle economie ma contrario all’unione. Il consigliere Bottari, infine, poco diplomaticamente argomentava: «costringere i cattolici ad accettare una forma di tumulazione che la loro coscienza respinge sarebbe violenza delle peggiori».

L’espansione del cimitero principale di Messina fra polemiche e “aggiustamenti”

La parte che si affacciava sulla strada Provinciale, detta “ingresso nobile”, veniva chiusa da un muro nel 1877, con la spesa di quattordicimila lire. Con cinquantaquattromila lire, invece, si era portata a termine la sistemazione delle vie d’accesso alla spianata ed alla parte monumentale. Opportuna qui era caduta la domanda del consigliere Buscemi sull’ammontare delle spese totali. Per tutta risposta, il sindaco riportava la somma di novecentomila lire per il livellamento dei terreni, la costruzione delle strade, le opere sotterranee, la condotta delle acque, l’incanalamento delle piovane, ma aggiungeva che per l’ultimazione dell’opera sarebbero occorse altre quattrocentocinquantamila lire, in linea con l’estimativo del 1855, ammontante a 1.275.000 lire.

L’assessore ai Lavori Pubblici Francesco Mauromati poneva la questione: la spesa di sedicimila lire non sarebbe bastata ad ultimare la sezione nord, occorrendo altre opere e la decorazione delle volte.

Gli faceva da sponda il consigliere Giuseppe Mauromati, il quale  riteneva

«essersi speso troppo pel Camposanto, perché convenga spendervisi ancora, di fronte a tante opere di assai maggiore utilità che occorrono al paese. Fermo nei suoi convincimenti, altre volte espressi, che il Camposanto monumentale sia un’opera sbagliata, in quanto che richiede dei milioni in una spesa di gran lunga superiore alle forze del Comune, propone di lasciarsi al punto in cui si trova e di respingersi la proposta della benchè menoma spesa. Il Sindaco, deplorando che si possa esser così corrivi come il sig. Mauromati al dispregio di un’opera monumentale che viene ogni giorno ammirata dai forestieri, che forma un ragguardevole ornamento della Città, che dà alla Finanza del Comune l’annuo introito di L. 30.000, che ha giovato potentemente e gioverà all’incoraggiamento di tanti artisti, soggiunge che produrrà ancora una volta un preciso dettaglio della spesa occorsa sin oggi, per ovviare a qualunque esagerazione ed a qualunque malinteso».

Il sindaco, nella tornata successiva, riportava l’elenco delle spese per il camposanto:

«1. ammontare dei lavori eseguiti dall’impresa Mangano Gaetano e fratelli in virtù del contratto del 10 luglio 1865 per notar Ciraolo L. 629.961,98; 2. Idem dell’impresa Bonaventura e Boccafusca giusta l’atto di appalto del 21 luglio 1873 L. 223.131,22; 3. Cimitero acattolico L. 5.999,93; 4. Muro di chiusura ed ingresso monumentale in costruzione prezzo netto L. 51.165. Totale L. 910.258,13».

Le entrate dal 6 aprile 1872 al novembre 1877 ammontavano a L. 145.756, ovvero al tre per cento della spesa sostenuta.

Risolti i problemi di calcolo, arrivavano puntuali anche le lamentele per i problemi legati all’espansione del sito cimiteriale: il consigliere Sergi raccomandava che presso l’ufficio tecnico si tenesse una pianta topografica del cimitero perché si potessero soddisfare nell’immediato le richieste di private sepolture senza che i richiedenti fossero costretti «a cercare i componenti della Commissione d’Arte, spesso con gravissimo disturbo, come è avvenuto testè al sig. Trombetta Consigliere Comunale, nell’infortunio che lo afflisse», scivolando su una rampa delle scale del cimitero. Ma la protesta era cominciata già qualche tempo prima: nel 1875 l’ingegnere comunale Hopkins presentava un reclamo al prefetto, sostenendo «esser contraria alle leggi sanitarie la deposizione dei cadaveri nelle fosse comuni murate, e la rimozione di essi dalle fosse in piena terra prima che fossero passati i 10 anni dal dì della inumazione». Il sindaco, interrogato dal prefetto, negava la rimozione dei cadaveri diciotto mesi dopo il seppellimento, come riteneva il denunciante. Il Consiglio provinciale di sanità definiva la pratica del cimitero contraria alle leggi (art. 76 regolamento sanitario del settembre 1874) e vietava categoricamente di riesumare i cadaveri prima dei dieci anni senza formale richiesta dei congiunti o degli interessati. Il sindaco presentava ricorso al governo del re. Inoltre, proponeva l’istituzione di una commissione che esaminasse il caso e chiedeva che fosse presieduta dal consigliere Trombetta.

I cimiteri rurali di Messina

Passata questa burrasca e istituitosi un compatto gruppo di assessori e consiglieri intorno al sindaco, si dava il via all’approvazione dei progetti dei cimiteri rurali. In una sola tornata, i progetti degli ingegneri Bottari e Vairo erano considerati «accettabili» dal sindaco e la giunta prontamente ne assegnava il mandato per la messa in opera.

Dopo pochi mesi veniva espropriato il prezioso fondo Chiavetta, di ben ventimila metri quadrati, adiacente al Gran Camposanto. Ad opporsi alla costosa operazione era il solito consigliere Pomara.

Seguiva una pausa di riflessione, durante la quale l’unico argomento trattato nelle sedute del Consiglio comunale sul camposanto riguardava le tariffe per le concessioni perpetue e temporanee e delle celle mortuarie. A partire dal 1882 il Comune di Messina aveva ricominciato a consegnare cospicue indennità d’espropriazione e a sostenere le spese d’ampliamento. All’opposizione di Pomara sull’acquisto di nuovi spazi e alla proposta di curarsi maggiormente dei giardini e della parte monumentale del camposanto, il consigliere Saya rispondeva che il cimitero «ha bisogno di spazi 10 volte maggiori al punto che irrilevanti si presenterebbero gli spazi riservati a giardini e a zone monumentali».

Nel 1883 la ditta Mangano riceveva un acconto di lire 60.000 per i lavori prestati al camposanto, pari a circa il trenta per cento dell’intera somma. Grazie al gioco delle ripartizioni delle spese negli esercizi successivi, il bilancio di quell’anno riportava un pareggio.

L’anno successivo si riconosceva la necessità di costruire altri 27 cimiteri nei 46 villaggi del Comune. Il prefetto e la commissione di sanità, ritenendo la costruzione di cimiteri periferici più economica, approvavano il progetto. I primi erano stati quelli di Castanea-Massa San Giorgio, Salice, Santo Stefano-Santa Margherita, Pace. S’indicevano i lavori per quelli di Faro Superiore e Curcuraci (dietro l’espropriazione di un terreno ai danni del dottor Francesco Donato); di Giampilieri (dietro l’espropriazione di mq 2200 di terreno al barone Gaetano La Corte e di 1570 mq al sig. Domenico Panarello); dei villaggi Serro e Divieto, in contrada Castelli (dietro l’espropriazione di mq 1200 di terreno al sig. Duca di Giovanni); di Bordonaro (dietro espropriazione di 1200 mq di terreno a Placido Todaro e Placido Raffa). Ben presto si faceva sentire il carico finanziario sulle casse comunali e nel 1890 si ricorreva a un prestito bancario di centoventicinquemila lire per la sistemazione di sei cimiteri.

Proprio in quell’anno il governo nazionale varava un’importante legge sul risanamento della città di Napoli che stabiliva parametri certi circa il valore dei beni espropriati. Tale legge ha avuto ripercussioni fino ai giorni nostri e, per alcuni aspetti, è ancora utilizzata.

Il Consiglio municipale messinese, ritenendo di presentare problematiche analoghe a quelle della città partenopea, chiedeva un contributo di sette milioni di lire per il risanamento.

Si riaprono i cantieri del cimitero principale: ampliamenti e restauri

Solo dieci anni più tardi l’amministrazione comunale tornava ad occuparsi dell’ampliamento del cimitero principale, stanziando somme per la sala anatomica, le rimesse per le vetture mortuarie, i magazzini per i sotterratori, i nuovi campi d’inumazione dietro l’espropriazione forzata per causa di pubblica utilità ai danni dei signori Castelli, De Pasquale e Arigò. Seguivano altri ampliamenti, interventi e riparazioni.

Si assegnava in concessione alle famiglie Picardi e Bonanno un terreno per costruirvi una cappella di famiglia, di un’estensione superiore a quella prevista dal regolamento. La Giunta l’aveva negata, ma il Consiglio l’approvava all’unanimità, con la sola astensione del socialista Noè. Grazie a quest’apertura, qualche tempo dopo, l’assessore Di Giorgio dava la possibilità alle famiglie di ospitare all’interno delle cappelle, dietro pagamento, anche componenti estranei al gruppo familiare.

Si provvedeva alle riparazioni dovute agli smottamenti dei terreni scoscesi a causa delle frequenti piogge di quegli anni; si acquistavano ulteriori diciottomila metri quadrati di terreno, coltivato ad agrumeto, vigneto, oliveto e alberi da frutto, ma il proprietario Antonino De Pasquale Pennisi irrevocabilmente chiedeva un compenso di centottantamila lire, mentre il Comune ne offriva cinquantaquattromila e il consigliere Cacopardo ne approfittava per chiedere il restauro della Galleria monumentale.

La linea speculativa adottata dai proprietari dei terreni circostanti il cimitero cittadino aveva costretto l’assessore Di Giorgio a ricorrere all’utilizzo dell’area di Maregrosso.

Nel 1905 erano trascorsi quasi quarant’anni dalle ultime controversie consiliari sul reparto acattolico, ma si continuava ad assistere alla dura reazione del movimento clericale che chiedeva l’erezione di un muro di separazione. S’accendeva lo scontro con i repubblicani anticlericali e massoni, dei quali si era fatto portavoce il consigliere Giuseppe Bonfiglio:

«fare una differenza e porre un muro di separazione come si pensa è ingiusto, non si fa in nessuna parte d’Italia» […] «tale separazione è condannata dalla scienza e dalla civiltà e non presenta nessuna pratica utilità o necessità».

L’assessore all’igiene Di Giorgio ammorbidiva i toni e, pur sottolineando che la contestazione non poteva che sorgere dai clericali,

«intendendosi quei fanatici che vorrebbero trasportare il Medio Evo nel secolo XX certo si potrebbe vedere in essi un pericolo. Ma – precisava – clericali in questo senso a Messina e tantomeno nel consiglio o nella giunta non ve ne sono».

Fra i consiglieri si faceva largo l’idea  che la divisione operata nel 1872 potesse permanere, perchè offriva a ciascuno la libertà di decidere dove seppellire i propri morti. A un anno di distanza da quella tornata, veniva redatto un nuovo regolamento in centotrentadue articoli, con nuove regole sui seppellimenti, sulla divisione del reparto acattolico da quello cattolico, sulle sepolture, sulle riesumazioni e sui prezzi.

Il reparto acattolico restava una piccola area confinata all’ingresso laterale.



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