Messina, vitale ma sfortunata
Alla fine dell’Ottocento Messina era una città bella e fiorente, con la sua marmorea Palazzata, i continui traffici commerciali, i negozi ben forniti, l’attiva vita culturale. Raramente il forestiero che vi si recava in visita conosceva tutta la sua tribolata storia, fatta di terremoti, carestie ed epidemie di colera. Ma, alla fine di ogni evento infausto, Messina era stata sempre pronta a risollevarsi, accogliendo l’aiuto, a volte poco disinteressato, dello straniero.
Una sequela di terremoti investì la città negli anni 1638, 1649, 1693, 1783, 1894, 1895, 1905, 1907.
Cominciamo dalla rivolta del 1674-78
Nel corso del XVII secolo, la dominazione spagnola fu particolarmente astiosa e confluì nella rivolta popolare del 1674-78, disperato tentativo di recuperare gli antichi privilegi monopolistici e la tradizionale autonomia commerciale. La ritorsione dell’occupatore spagnolo fu dura: Messina fu spogliata dei suoi averi e delle numerose opere d’arte, testimonianze di un passato glorioso e della grande ricchezza raggiunta attraverso il commercio. Artisti, intellettuali e famiglie facoltose emigrarono in altri paesi europei. In quell’occasione la città perse il porto franco, la zecca, il palazzo senatoriale e l’università. Ai danni si aggiunse anche l’umiliazione e la volontà dello spietato tiranno spagnolo di cancellare la memoria storica di Messina: il vicerè Francisco De Benavides, su mandato del re Carlo II, si introdusse nella Torre del Campanile del Duomo e ne asportò le importanti pergamene ivi custodite che narravano la grandezza della città dello Stretto e testimoniavano gli antichi privilegi posseduti. Le pergamene, in cui stava gran parte del passato di Messina, si trovano adesso a Siviglia, presso la biblioteca del castello del duca di Medinaceli.
Peste e colera
Fra le grandi sciagure, ricordiamo anche la diffusione della peste nel 1743 e le gravi epidemie di colera degli anni 1854, 1867 e 1887, dovute alla mancanza più assoluta di norme igieniche. Basti pensare che lo stesso corpo di polizia urbana che doveva verificare le condizioni d’igiene pubblica, viveva in un palazzo accanto gli uffici del Banco di Sicilia e della Cassa di Risparmio «tra cavalli, immondizie e letti».
Il decennio inglese
La continua fuga di famiglie e di giovani, tuttavia, fu bilanciata dall’arrivo degli stranieri, finanziatori ed animatori di nuove iniziative commerciali nonché importante ponte di connessione tra la Sicilia e l’Europa. I baroni siciliani, indeboliti dalle iniziative antinobiliari provocate dalla Rivoluzione Francese del 1789 e ancor più dal riformismo vicereale, ebbero l’appoggio degli inglesi che a Messina trovarono partners d’affari disponibili e di larghe vedute. Ad aumentare l’interesse degli inglesi verso la Sicilia fu il blocco continentale operato dalla Francia napoleonica contro l’Inghilterra. Il «decennio inglese» in Sicilia (1806-1815) fu preziosissimo e di grande stimolo per gli operatori locali.
Concluso il periodo napoleonico, il re Ferdinando IV, che aveva fatto di Palermo la sua residenza provvisoria, tornò a Napoli dove si fece proclamare Ferdinando I re delle Due Sicilie. Era l’8 dicembre del 1816. I siciliani non gradirono questo voltafaccia che portò alla cancellazione della costituzione siciliana e la fine del sogno di un regno indipendente.
Le nuove vie dell’economia siciliana nell’Ottocento
Intanto, i Borbone non tardarono a sfruttare le risorse del nuovo regno. Come già nel Settecento, l’olio di oliva si confermava la più importante fonte di ricchezza: tra il 1838 e il 1855 veniva esportato il 40% della produzione totale. Era l’olio d’oliva della qualità migliore mai vista fino ad allora. Quello più scadente veniva acquistato dai saponifici marsigliesi o dalle fabbriche inglesi di filatura dei panni.
Proprio in questo periodo, tra il 1830 e il 1848, prese vita, a Palermo, la storia commerciale dei Florio. Vincenzo Florio (1799-1868), figlio di un droghiere di origini calabresi, nel giro di pochi decenni, riuscì a creare un vero e proprio impero finanziario ed industriale, impensabile per quei tempi e per l’economia marginale in cui viveva la Sicilia all’inizio dell’Ottocento. Grazie ai consigli del socio inglese Benjamin Ingham, l’intraprendente Florio avviò un’attività dietro l’altra: la coltivazione del tabacco, la costruzione delle tonnare, la produzione del vino marsala (strada aperta da Woodhouse), l’estrazione dello zolfo a Racalmuto, la creazione di un’industria cotoniera, l’istituzione di una Società di battelli a vapore per i trasporti di persone e merci, il servizio postale tra Napoli, Messina e Palermo, la fonderia per la fusione di ferro e bronzo detta l’Oretea (l’unica in tutta la Sicilia, indispensabile per la riparazione di imbarcazioni a vapore).
Mercanti inglesi, olandesi e danesi trassero grandi guadagni dai prodotti agricoli meridionali da quando non si servirono più di intermediari per i loro affari, sottraendo il monopolio del commercio oleario a Venezia. Con l’olio e le mandorle pugliesi esportarono l’olio e la seta grezza siciliani e calabresi, gli agrumi e i vini siciliani.
Carlo di Borbone tentò di creare un’industria agricola, ma la sua iniziativa fu duramente ostacolata dagli inglesi che temevano un’importante concorrenza da parte di un meridione italiano ricco di potenzialità. Furono poi gli stessi inglesi a sfruttare queste risorse: John Woodhouse, ad esempio, si spinse fino a Marsala per creare la famosa industria di vini, seguito a ruota da altri uomini d’affari inglesi. Ricordiamo alcuni nomi, presenti nell’isola anche per più di due o tre generazioni: Walker, Sanderson, Stinnes, Peirce, Frey Gullmann, Trevelyan, Barrett, Ingham, Horner, Whitaker, Morrison, Oates, Cloose, Taunton, Bertley, Routh Valentine. [continua…]