L’economia del periodo postunitario è piuttosto controversa: si basava su un sistema disordinato, che ospitava investitori stranieri, uno sfruttamento intensivo delle campagne e delle risorse idriche, senza un adeguato controllo dall’alto. Questo dato appariva evidente già nelle relazioni specialistiche coeve come la Relazione finale dell’Inchiesta agraria di Jacini o l’Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino.
Nel Cinquecento, l’economia agricola siciliana basava la sua forza sul surplus di produzione (si esportava tutto ciò che non si consumava), ma con l’aumento demografico il meccanismo saltò, dando luogo a sacche di sfruttamento di colture irrigue legate a fenomeni emergenti di mercato estero (canna da zucchero, gelso), sostituite dal Settecento in poi da vigneto, orto e agrumeto. Infine, nell’Ottocento, grazie alle nuove tecnologie capaci di estrarre maggiori quantità d’acqua, le predette colture irrigue vennero soppiantate dalla coltivazione degli agrumi. Messina detenne il primato di esportazione di agrumi e prodotti agrumari derivati fino al terremoto del 1908.
Fin qui tutto bene. Tuttavia, c’è da tenere conto di questi fattori di forte interferenza negli affari siciliani di fine Ottocento e inizi Novecento:
- I contratti di compravendita, antiquati, erano finalizzati al commercio e non incentivavano la produzione. Inoltre, dopo la vendita, il ciclo di distribuzione veniva affidato a vari intermediari, causando l’aumento del prezzo finale delle merci. La crisi del settore, infatti, subentrava soprattutto per via del calo dei prezzi imposto dalla concorrenza estera;
- Lo spostamento degli interessi politico-economici dei governi postunitari verso l’industria del Nord;
- La mancanza di un’agricoltura siciliana specializzata;
- La facilità di ricorso al credito con la proliferazione degli istituti bancari provenienti dal Nord Italia e il conseguente indebitamento della borghesia agraria siciliana;
- La perdita totale del mercato americano e russo;
- La nascita della concorrenza spagnola, palestinese e nordafricana;
- La crisi del 1907, il terremoto del 1908, gli effetti delle guerre mondiali sull’economia globale.
Tutto questo in soli 50 anni.
La domanda che mi sono sempre fatto è stata: come mai l’agrumicoltura siciliana aumentava a dismisura la sua estensione, nonostante l’insorgere di fattori disastrosi come quelli elencati?
Credo che la risposta stia soprattutto nel fattore n. 1: la contrapposizione tra produzione e commercio fu la causa maggiore della crisi. Perché comportò l’illusione della ricchezza facile e non permise agli operatori di avere un’esatta misura delle perdite subite e dei guadagni ottenuti. Da un lato, l’agricoltore mirava ad espandere la produzione per aumentare i ricavi, dall’altro il venditore (o meglio i venditori) mirava a selezionare merce di qualità e a centellinarla sul mercato per speculare sul prezzo. Lo scontro tra queste due figure e questi due diversi modi di affrontare il mercato, paradossalmente opposti, decretò la crisi del settore, ma non la fine.
In conclusione, nell’euforia del boom economico stava il germe della decadenza: un sistema produttivo e commerciale zoppicante, quale quello siciliano, dava comunque i suoi buoni frutti di fronte a un’enorme domanda mondiale, tuttavia si preparava a un tracollo senza precedenti, una vera e propria bolla speculativa. Senza aziende specializzate, senza incentivi statali, senza cooperazione tra imprese, senza un regolamento commerciale unitario, la produzione e il commercio degli agrumi videro esaurirsi la loro prima fase di egemonia. Realtà produttive locali e i nuovi trasporti rianimeranno fra le due guerre e nel secondo dopoguerra il mercato, decretando la fine dei grandi hub commerciali e portuali come Palermo e Messina, e la crescita di centri periferici più strategici, utili anche ad alimentare il mercato interno, come Lentini, Paternò, Calatabiano, Barcellona, Mistretta, Bagheria.
Ed ecco come da un quadro felice, ne nasce uno tendenzialmente opposto: l’unità d’Italia affonda Messina perché nessun governo pensa a regolamentare il settore, le banche sfruttano il momento speculativo ipotecando i beni immobili di imprenditori (sprovveduti o meno) agricoli e alimentano la speculazione edilizia. Il nuovo sistema amministrativo liberale smonta pezzo per pezzo quello precedente: la borghesia urbana dei colletti bianchi fagocita la borghesia agraria ottocentesca, strappandole potere e proprietà, ponendo le basi per la nascita dell’attuale sistema politico-economico.
L’export di agrumi siciliani dal porto di Messina
Dopo il 1860 Messina cercò di riguadagnarsi un posto nell’ambito dell’economia mondiale, ma si trovò davanti a due grandi problemi: le scarse risorse finanziarie comunali e una crescente attenzione verso il settore edilizio. Per rimodernare il porto e costruire i nuovi magazzini generali l’amministrazione comunale preferì attendere le risorse statali. Nel frattempo, i magazzini del porto erano affittati a prezzi eccezionali dai privati. Dal porto uscivano carichi di seta, agrumi e derivati agrumari, vino, olio ed entravano materie prime da trasformare in loco, come grano e pellame.
Gli agrumi siciliani erano venduti in tutto il mondo e la maggior parte della produzione passava attraverso il porto di Messina. Nel 1780 dal porto messinese transitavano ben 40.000 casse di agrumi destinate ad invadere i mercati di tutto il mondo. Il ricavo fu di 315.000 lire e l’esportazione non accennò a diminuire. A quasi un secolo di distanza da quella data, Messina era la maggiore esportatrice di agrocotto (succo di limone concentrato) al mondo: nel triennio 1870-72 ne esportò ben 15.429 quintali contro i 16.708 prodotti in tutto il Regno d’Italia. Nonostante la cattiva politica fiscale adottata dal governo unitario per il Mezzogiorno e la nascita di estese piantagioni di agrumi nel territorio americano, la Sicilia, in un periodo compreso tra il 1850 e il 1880, vide triplicare la superficie dedicata alla coltivazione di agrumi, e se, nel quinquennio 1866-1870, si esportarono 620.685 quintali di agrumi, nel quinquennio tra il 1896 e il 1900 l’esportazione quadruplicò, raggiungendo i 2.390.572 quintali. Le maggiori richieste venivano proprio dagli Stati Uniti.
Inutile dire che questo tipo di mercato originò fiorenti affari: irrigatori, innestatori, braccianti, fabbricanti di ceste e cassette, trasportatori per il carico e lo scarico delle merci (per terra e per mare), produttori di concimi e antiparassitari, imprese di lavorazione di prodotti agrumari, proprietari di vaste estensioni di agrumeti, usufruttuari, sensali, contabili, notai, avvocati per le controversie ed altri operatori del mercato che, direttamente o indirettamente, godevano del momento particolarmente propizio dell’economia isolana.
Il panorama economico e sociale siciliano non era del tutto roseo. Sussistevano antichi patti agrari che frustravano ogni sforzo lavorativo del contadino; il sistema giuridico era ancora tutto da definire; il credito commerciale era in mano ai privati.
Denis Mack Smith rilevava, attraverso l’esame di un rapporto parlamentare del 1867, che i siciliani più ricchi erano «troppo spaventati» per riunirsi in imprese commerciali. Inoltre, le loro continue lamentele riguardo alla mancanza di capitali per lo sviluppo dell’industria e del commercio erano considerate solo giustificazioni alla loro inerzia: «per l’acquisto delle proprietà ecclesiastiche – infatti – il denaro contante si trovò». In seguito all’eversione dell’asse ecclesiastico e alla vendita dei beni demaniali nel Sud d’Italia, infatti, circa 600 milioni di lire andarono a finanziare il nascente sistema capitalistico del Nord. Tale iniziativa, promossa dallo Stato unitario, comportò il pareggio del bilancio, ma privò la borghesia capitalistica del Sud dei mezzi necessari per intensificare i loro sforzi produttivi e tolse ai contadini le piccole estensioni di terreno coltivabile.
Messina tra investimenti immobiliari e denaro a prestito
A Messina, città e provincia, furono alienati 5.452 ettari di terreno con un ricavo, immobili compresi, di 10.473.000 lire, su un totale di 139.208.179 lire per la sola Sicilia. Questo fenomeno aveva comportato la concentrazione delle risorse immobiliari nelle mani di pochi e convinto i più intraprendenti affaristi a gestirle senza quegli sforzi e quei rischi che invece caratterizzavano i settori agricolo e commerciale.
Non si trattava di «inerzia» quanto piuttosto di una scelta oculata del settore d’investimento con il più alto rapporto ricavo/spese, per l’epoca. Si riusciva a vivere bene anche così. Il commercio dava degli ottimi risultati ma non era certo per tutti e chi aveva bisogno di contanti li chiedeva agli istituti finanziari o alle banche.
Volendo attualizzare la realtà economica del tempo, pensiamo al turismo di oggi: è una delle più grandi risorse del meridione d’Italia, ma non viene adeguatamente sostenuto: mancano le idee, gli operatori specializzati, le strutture, bisogna combattere con mille realtà sociali, ambientali, economiche, edilizie…
Ritorniamo al 1868. Il quadro sociale, economico e finanziario si presentava molto confuso, il mercato ottocentesco vario ed incerto: una nuova scoperta tecnologica, un nuovo prodotto, un cattivo raccolto, potevano sconvolgerlo in un sol colpo e cancellare definitivamente imprese ben avviate. Per queste ragioni, dunque, nonostante l’ottimismo generale, anche a Messina i prestatori di capitali si premunivano.
Originali soluzioni creditizie del mercato ottocentesco
Il nobile Gaetano Loffredo, vissuto a Messina nella seconda metà dell’800, prestava il suo denaro a soggetti vari, con tassi d’interesse compresi fra il 4 e il 6%, misura ritenuta legale dall’art. 1831 del Codice civile del Regno d’Italia, e con ipoteca immobiliare. Secondo i dati dell’inchiesta condotta da Lorenzoni sulla situazione finanziaria e sociale della Sicilia, per incarico del governo Giolitti, i prestiti a basso tasso d’interesse erano un’eccezione: in alcuni comuni gli interessi toccavano il 400% e in un comune anche il 1000%. Il tasso d’interesse, comunque, non sempre era indice di onestà e correttezza morale: nella vicina Calabria venivano effettuati comunemente mutui gratuiti che, in compenso, riservavano dei veri e propri obblighi per il debitore.
La ditta Fratelli Bonanno effettuava trasporti via mare dal porto di Messina. Dopo il 1890, il mercato più redditizio per l’esportazione d’agrumi e prodotti agrumari fu quello americano. Senza pretendere il benché minimo anticipo di denaro, la ditta si occupava di tutte le operazioni: dalla raccolta degli agrumi al carico sulle navi, al pagamento dei dazi doganali, allo sbarco, alla sosta presso la banchina, al trasporto fino al mercato. Domenico Bonanno, l’operatore messinese addetto alla vendita degli agrumi sul mercato di New York, avrebbe recuperato il capitale versato dalla ditta con il ricavato delle vendite. La ditta non si assumeva alcuna responsabilità intorno alla vendita dell’intero carico di agrumi e ciò per la facile deperibilità della merce, mentre dava al contraente tutte le assicurazioni possibili sul trasporto, anche con il versamento di una caparra.
Questa attività mercantile continuava a sostenersi, nonostante l’amministrazione municipale avesse rivolto la pressoché totale attenzione alla speculazione edilizia, i trasporti fossero inefficienti, poche e malcurate le vie di comunicazione stradale e ferroviaria, il porto inadeguato all’attracco dei grossi mercantili. La ditta Bonanno, che già dal 1877 garantiva le comunicazioni fra la Sicilia e il Nord d’Europa, nel 1885 assumeva la rappresentanza di nuove imprese di navigazione: la Florio-Rubattino, l’inglese Cunard, l’americana Mediterranean e New York, l’inglese London, la tedesca T. Homan Sr., la danese United Steam Ship e C. e la svedese Line Mayer. Allacciava così i contatti con la lontana America. Nel 1889 sorgeva la Società Siciliana di Navigazione a vapore che accoglieva, come azionisti, gli elementi economicamente più influenti della città fra cui Domenico Bonanno ed Enrico Ainis. Nel 1893 il banchiere Giuseppe Battaglia dava vita alla Società di Navigazione nello Stretto di Messina Battaglia e Siciliana.
Nel 1895 fu aperta la linea ferroviaria Palermo-Messina e il 1 novembre 1899 entrarono in funzione le prime navi- traghetto che garantirono i collegamenti tra Sicilia e continente. Il 23 gennaio 1899 i cugini Bonanno fondarono una nuova società marittima ed acquistarono un piroscafo di 2.240 tonnellate di stazza, favoriti, nell’acquisto, dalle nuove leggi fiscali.
Arrivano le banche del nord
Nonostante le difficoltà, le attività legate al settore marittimo continuavano ad essere sostenute, ma l’elevata pressione fiscale dello Stato costrinse gli imprenditori messinesi alla richiesta di forti anticipi di denaro per l’avvio e il mantenimento delle operazioni commerciali. Fu così che nacquero i nuovi istituti bancari a Messina: dall’Unità d’Italia fino al 1904 contiamo nove banche di cui tre filiali nazionali e sei cittadine. Le banche si costituirono tutte sottoforma di società per azioni, vi presero parte i notabili della città e alcuni imprenditori provenienti dall’estero.
Purtuttavia restarono in piedi gli istituti finanziari privati di vecchia data come Mariano Costarelli e figli, Fratelli Fischer, Frey Gullmann, Salvatore Giorgianni e figli, Domenico Manganaro e figli, Mauromati, Francesco Melardi e figli, Francesco Miceli Ainis, Saverio Polimeni e figli, Wolf Robe e C., Pietro Giovanni Siffredi, Giovanni Walser e C., Giovanni Walser e Federico Grill.
Senza trascurare gli amministratori dei Monti di pietà, quasi tutti d’estrazione nobiliare: Loffredo, La Corte Cailler, Polimeni, Calapaj, Grill, Giacopello, Boscia, Sollima Novi, Lella Siffredi, Cianciolo, De Gregorio, Marullo.
Era facile trovare gli stessi nomi nelle giunte comunali e provinciali, nelle diverse società per azioni, nelle sentenze d’espropriazione immobiliare.
Caduta e mancata ripresa
Il terremoto del 28 dicembre 1908 cancellò migliaia di vite umane e, con esse, le speranze di crescita dell’economia cittadina. La ripresa, purtroppo, fu molto lenta, i contatti commerciali si affievolirono, i grossi mercanti cercarono nuove piazze per i loro affari. Le società di navigazione rimaste considerarono più opportuno unire le loro forze per acquistare nuovi piroscafi: la Società di Navigazione Siculo-Americana di Peirce e la Società Anonima Hugo Stinnes acquistarono il «San Guglielmo» e il «Messina» nel 1911. Ma già nel 1917 furono costretti a trasferirsi a Napoli, mentre altre società svendevano le proprie imbarcazioni.
Negli anni venti la situazione mutò con la nascita della Peloritana Anonima Costruzioni Edilizie (P.A.C.E.) che dava inizio al recupero edilizio della città. La P.A.C.E. era sorta per iniziativa dell’intraprendente Giuseppe Battaglia, creatore anche della Società Anonima Officine Navali e Meccaniche e della Società Anonima Laterizi Siciliani.
Il settore industriale si concentrava sulla produzione di derivati agrumari (industrie Sanderson, nel 1908 già proprietà dell’ingegnere Giuseppe Bosurgi), pasta (Società Anonima Molino e Pastificio Gazzi di Giovansilvestro Pulejo), birra (Società Anonima Birra Messina), liquirizia (fabbrica Ainis), tessitura e stampa del cotone (Gaetano Ainis).
La guerra mondiale e i bombardamenti sancirono la fine d’ogni attività industriale di rilievo.
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