Gaetano Salvemini (1873-1957), storico e meridionalista pugliese, è residente a Messina quando scrive, su «La Voce» del 3 gennaio 1909, il graffiante articolo intitolato «Cocò all’Università di Napoli o la scuola della malavita» che parzialmente citiamo. L’articolo fu scritto prima del terremoto e la redazione del giornale ebbe qualche titubanza a pubblicarlo. Salvemini perse moglie e figli nel terremoto del 1908.
Conflitto d’interessi
Il prosindaco Loffredo si era fatto sfuggire un affare davvero lucroso, anche se molto impopolare e minacciato dal rischio del contrabbando. Se l’avesse portato a termine, quale conseguenza avrebbe prodotto il conflitto d’interessi derivante dal fatto di essere proprietario di mulini ed esattore? Nessuna: ci avrebbe guadagnato «solo» due volte e non avrebbe dovuto rinunciare nemmeno alla carica pubblica. Tale conflitto d’interessi, infatti, pur denunciato dall’opposizione, non era riconosciuto come reato. Dunque, perdere una battaglia non era perdere la guerra: il prosindaco Loffredo, possidente e commerciante, era anche a capo di un’estesa attività creditizia, praticata sotto diverse forme: dai semplici prestiti in forma privata con ipoteca immobiliare, alle partecipazioni bancarie e alla gestione di congregazioni di carità. Nessuna forma di usura, inutile nei confronti di chi era già sul lastrico, ma un continuo rapporto di dipendenza del debitore nei confronti del suo creditore-padrone, il quale poteva intimargli di prestare, in forza di un contratto ipotecario, un’attività lavorativa (trasportare un carico di agrumi, pellame ecc.) o un favore (il voto o la propaganda elettorale). Dei settantacinque crediti non riscossi fino alla sua morte, diciassette furono concessi ad impiegati statali e a professionisti, quattordici a commercianti e a negozianti grossisti. Alcuni crediti non recuperati caddero in prescrizione perchè il contratto di mutuo non fu rinnovato dopo ventotto anni dalla data di concessione (artt. 2135 e 2136 del codice civile del Regno), per altri non fu effettuato il precetto immobiliare e in altri ancora fu interrotta l’azione esecutiva successiva all’espropriazione immobiliare. Un’altra caratteristica, curiosa ma scontata, era la vicinanza degli immobili dei debitori a quelli del creditore.
Neanche alla piccola borghesia emergente mancarono le idee e i mezzi legali per poter sottrarre consistenti patrimoni alla grande borghesia terriera. Il 26 luglio 1901 l’Intendente di Finanza di Messina intimò ad Argelia Fileti, Ernesto Marano e Concetta Rizzotti, quali amministratori della ditta Salvatore Romano e figli, il pagamento di lire 59.952 per alcune annualità di canone maturato e non pagato sul fondo Castagno, ricevuto in concessione enfiteutica dal Comune. Salvatore Romano era proprietario di un negozio di grani e prodotti vari in via Varese n. 104 e rendeva così bene che aveva pensato di investirne i profitti in un mulino. A spezzare le prospettive di sviluppo di quest’intraprendente uomo d’affari fu l’epidemia di colera del 1867. I figli Giovanni ed Enrico ereditarono l’enfiteusi sul fondo Castagno, con il mulino e i terreni coltivati. Purtroppo anch’essi morirono prematuramente e lasciarono il fondo alle rispettive mogli, amministratrici dei beni dei minori Ida, Ester, Amelia, Salvatore e Bice, figli di Giovanni Romano e Argelia Fileti, residenti in via Savonarola, e di Luisa e Salvatore, figli di Enrico Romano e Concetta Rizzotti, residenti in via Teatro della Munizione. Gli eredi godettero di un dominio utile sui fondi enfiteutici dal 1892 al 31 agosto 1900, ma nessuno di loro si preoccupò mai di versare il canone annuo di 62,50 lire al Comune. Con sentenza del 26 marzo 1903 il Tribunale di Messina condannava gli eredi Romano al pagamento di 59.952 lire o alla vendita delle loro proprietà: un mulino a vapore del valore di 70.000 lire, un fondo rustico coltivato ad agrumi, ulivi e orto del valore di 4.282,95 lire, tre fondi rustici del valore di 4.282,95 lire ciascuno, con la conseguente devoluzione dell’enfiteusi. I beni furono venduti ai fratelli Sofia. Per un personaggio come Salvatore, cugino di Orazio Romano, Intendente di Finanza negli anni ’70, era una prassi comune non pagare le tasse, ma alla sua morte non poté trasmettere agli eredi nè la sua influenza, nè il suo buon rapporto con il funzionario di turno.
Il giorno dopo, il 27 marzo 1903, il fratello di Concetta Rizzotti, Giovanni, chiese la risoluzione di un contratto di enfiteusi, per canone non pagato, su un fondo e dodici botteghe siti lungo il Corso Principe Amedeo. Il contratto era stato stipulato nel 1870 tra il padre Luigi e un fabbricante di botti, Alessio Sofia. I figli di quest’ultimo, Orazio, Letterio e Nunzio, possidenti, avevano trascurato di pagare due canoni d’annualità e, inoltre, non si erano preoccupati nè della cura del fondo nè della manutenzione dei fabbricati. L’azione era stata suggerita dal caso omonimo della sorella o si trattava di una vendetta trasversale?
L’illusione del cambiamento
Il cambiamento momentaneo arrivò con l’avvocato Antonino Martino, repubblicano, vincitore delle elezioni politiche del 1900. Nei suoi quattro anni di mandato, Martino riuscì a municipalizzare la gestione del dazio al consumo e a dare una svolta ai lavori per l’acquedotto. Era un altro attacco dichiarato alla borghesia agraria, allo scopo di rintuzzare la sua sempiterna egemonia. L’intervento fu operato nell’ambito del programma riformista giolittiano, di cui a Messina era il maggior interlocutore Ludovico Fulci, liberale di sinistra vicino ai socialisti e massone.
La massoneria messinese
Il filo conduttore fra le passate amministrazioni comunali e la presente, decisivo per capire il peso dei cambiamenti e i perchè della continuità in senso conservatore, è proprio la massoneria. Prima delle elezioni del 1900, esattamente il 24 ottobre 1899, il gran maestro Ernesto Nathan è a Messina per rinsaldare le fila delle antiche logge cittadine, sottolineando il pericolo «bianco» oscurantista della libertà politica e religiosa. Dopo la vittoria elettorale, nel giugno del 1900, Nathan è nuovamente a Messina per ringraziare i «fratelli», esortarli a occupare quante più cariche pubbliche e vietare che il partito clericale entrasse nelle amministrazioni e nelle opere pie, perchè «la carità non serva ad esso come ricatto». Fra i «fratelli», oltre al solito Ludovico Fulci, c’è Antonino Martino, il futuro sindaco repubblicano, il quale, già al primo anno di mandato, effettua feroci tagli in bilancio sul capitolo di spesa a favore delle istituzioni religiose, mantenendo la parola di massone.
“La Voce” di Gaetano Salvemini a Messina
Messina, seconda metà dell’Ottocento: in una fitta trama di interessi si confondono il pubblico e il privato, restano ai blocchi di partenza le iniziative estranee alla classe dei gestori del potere e calpestati i diritti del cosiddetto quarto stato, mentre l’avanguardia repubblicana, radicale e socialista manifesta vivacemente nelle piazze italiane. Le repressioni governative e le pressioni dei ministeriali portano solo a una maggiore recrudescenza del fenomeno.
Ne viene fuori un quadro molto attuale, in cui l’associazione degli interessi prevale sui colori e sugli ideali politici. Non a caso la rivista «La Voce», fondata da Giuseppe Prezzolini nel 1908, politicamente e culturalmente ostile a Giolitti, si scagliava, tramite il suo massimo pubblicista Gaetano Salvemini, contro la piccola borghesia intellettuale, considerata «uno dei flagelli più rovinosi del Mezzogiorno»:
«[. . . ] E’ questa una malattia di tutti i partiti, a qualunque gradazione politica appartengano, e di tutti i comuni italiani, qualunque sia la razza che li popoli. E girando l’Italia e vivendo a lungo in Romagna, in Lombardia, in Toscana ho acquistato sotto questo, come sotto molti altri rispetti, una discreta stima per l’Italia. . . meridionale: tutto il mondo è paese; e anche i nordici sono discretamente sudici. Ma fra l’Italia settentrionale e l’Italia meridionale ci sono, a danno del Mezzogiorno, le seguenti differenze :
1. Nel Mezzogiorno le professioni libere offrono meno risorse che nel Settentrione, data la minore ricchezza del paese e i meno sviluppati bisogni civili della popolazione;
2. Nel Mezzogiorno i professionisti, e più specialmente gli avvocati, sono assai più numerosi che nel Nord, e quindi si riversa sugli impieghi comunali un maggior numero di spostati; e Cocò è costretto ad una concorrenza più feroce, e non ha modo di fare le cose per benino e di salvare le apparenze come fanno i suoi analoghi nell’Italia settentrionale;
3. Nel Nord la classe dei professionisti affamati costituisce soltanto uno fra gli elementi della vita politica ed amministrativa e deve coordinare e subordinare la propria azione a quella delle altre classi che hanno peso politico: borghesia industriale e commerciale, proletariato industriale, proletariato rurale, professionisti competenti e non affamati; nel Mezzogiorno la borghesia capitalistica è poco sviluppata, il proletariato industriale è agli inizi, il proletariato rurale è escluso dal voto perchè analfabeta, professionisti competenti e non affamati ce ne sono pochini assai. E così gli spostati – il così detto proletariato dell’intelligenza – formano la grande maggioranza della classe politicamente attiva, sono ovunque padroni del campo, saccheggiano senza limiti e senza freno i bilanci comunali: e si possono dare anche il lusso di dividersi in partiti, secondo che sperano l’impiego dal gruppo amministrativo dominante o dall’opposizione. E le spese di tutto questo lavoro le fanno sempre, alla chiusura dei registri, i contadini.
E il deputato meridionale è, salvo rarissime eccezioni individuali, il rappresentante politico di una delle due camorre di professionisti affamati, che si contendono il potere amministrativo per mangiarsi i denari del municipio e delle istituzioni di beneficenza e per tosare i contadini. E l’ufficio del rappresentante politico consiste nell’impetrare l’acquiescenza della prefettura, della magistratura, della questura, alle cattive azioni dei suoi elettori e seguaci e di votare in compenso la fiducia al governo in tutte le votazioni per appello nominale. Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma impesta tutta l’Italia. Con questa differenza: che le province settentrionali sono presidiate da una borghesia non indegna della sua funzione politica e sociale, e forti di una vigorosa vita autonoma, reagiscono contro l’infezione della Città Eterna, e bene o male fanno la loro strada. Nel Mezzogiorno la corruzione propinata dal governo centrale si accumula a quella che pullula nella vita locale, e tutto il paese si sprofonda in una fetida palude di anarchia intellettuale e morale e di volgarità[…]».
La pressione del mondo clericale, che nel frattempo si era tolto di dosso la nomea del «partito dei contadini», si fece sentire in maniera subdola attraverso un sottile sistema d’alleanze con i liberali. La borghesia agraria messinese, infatti, aveva forti legami con la chiesa, sia per il comune programma di strumentalizzazione delle masse contadine, sia per parentela. Era una sorta d’anticipazione storica del cosiddetto «patto Gentiloni» del 1912.
La giunta Martino
Durante il mandato di Martino, l’assessore repubblicano Pulejo (molto legato agli ambienti cattolici) aveva presentato le dimissioni e, il 5 luglio 1903, la città ritornava a una nuova consultazione che vedeva la rielezione di Martino. Dopo solo sei mesi di mandato, la nuova giunta si dimetteva e Roma nominava un nuovo commissario regio straordinario.
Per capire bene il profilo dell’imprenditore e dell’uomo politico Pulejo, faremo riferimento a un suo discorso tenuto nel 1903 presso l’Associazione Commercianti e Industriali di Messina, di cui era presidente. In quell’occasione difese la politica liberale e democratica del sindaco Martino nella lotta contro l’oscurantismo e la politica delle camorre e a favore della piena legalità. Ma fu ben cauto nel lanciare accuse dirette contro i responsabili del «mal governo» cittadino: insistette sul cattivo operato dei delegati al parlamento, gli onorevoli Tamajo e Caccìa, perchè si erano fatti approvare la nuova legge sul dazio del grano con decreto reale e non con votazione parlamentare; invocò il rispetto dello Statuto; citò con grande soddisfazione il discorso di Michelangelo Bottari in consiglio comunale, in difesa dei lavoratori e dei cittadini; lodò l’operato dell’aristocratico e conservatore prosindaco Loffredo che, nel 1868, consentì la diminuzione del dazio di ben 200.000 lire.
Non si trattava di un caso di schizofrenia politica ma, come abbiamo già accennato qualche pagina fa, di un meditato accordo fra parti politiche di diverso indirizzo ed estrazione sociale (denominato fronte popolare) al fine di rilanciare l’economia isolana e mettere un freno agli interventi fiscali governativi.
Il patto liberal-clericale messinese, fra l’altro non ufficiale, decretò la fine paradossale della giunta Martino, con le conseguenti dimissioni del sindaco e della Giunta; il Consiglio fu sciolto per decreto reale il 20 marzo 1904.
Articoli precedenti sul Terremoto di Messina:
- Messina 1908-2018: i 110 anni del terremoto che unì gli italiani più dell’Unità
- 28 DICEMBRE 1908: storia di una tragedia annunciata
- Storia di un superstite del terremoto di Messina: Antonio Barreca
- Messina 1908: “quale spettacolo terrificante!”
- Storia del primo telegramma che annunciò il terremoto di Messina al mondo
- Da «Via del Corso» a «Corso Cavour»
- Messina? Già cancellata prima del terremoto
- Le mani sulla città
- Un intellettuale dissidente a Messina: Riccardo Hopkins
- Il dramma delle alluvioni a Messina
- Le acque messinesi nelle mani dei privati
- Arriva il re!
- Le piaghe di Messina
- Messina alle soglie di un governo liberale
- Il potere dei palazzi
- Ottocento borghese: le mani su Messina
- Trasformismo “alla messinese”
(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
(2) D. De Pasquale, I Marchesi di Cassibile, ABC Sikelia Ed., 2018
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