Nella Messina ottocentesca gli interventi per contenere le alluvioni costituivano un’importante emergenza, ma quali le iniziative per le acque potabili? Risponde ancora il consigliere ing. Riccardo Hopkins.
Le acque private “ad uso pubblico”
Nel 1865 l’amministrazione comunale, a causa di una prolungata siccità, rimetteva ai coniugi Lusitano-La Rosa metà del canone da essi dovuto in qualità di concessionari di due penne d’acqua provenienti dal sito Uccelliera.
Nel 1868 l’amministrazione municipale, sempre capeggiata da Cianciafara, acquistava dalla famiglia Barrilà le acque delle sorgenti di Cumia per 1.000 lire. Stranamente tralasciò l’acquisto delle acque di S. Filippo, molto più copiose.
Nel 1870, la stessa amministrazione vendette parte delle acque del quartiere Serraglio a un grande proprietario che poteva prelevarle allacciandosi direttamente all’acquedotto comunale. Cosicchè ai cittadini messinesi non restava che bere le acque dei pozzi, ma nessuno di loro sapeva di pagare ugualmente le spese di costruzione e di manutenzione dell’acquedotto comunale…
Nel 1869 una giunta governata dal nobile Loffredo aveva stipulato una convenzione con il principe del Parco per acquistare le sue acque e destinarle «a pubblico uso».
Un’altra trovata del Cianciafara fa gridare il nostro Hopkins allo scandalo: nelle gore del mulino Botte che scorrevano lungo le colline, venivano immesse le acque dei pozzi, facendo credere alla popolazione che fossero acque pure di fonte. E che dire se il pozzo si trovava ad appena cento metri dal cimitero dei colerosi, quando la legge prescriveva una distanza minima di duecento metri? E delle fogne a cielo aperto? E delle fosse del Gran Camposanto? In questa città, dice Hopkins, si fa tutto il possibile per morire di tifo.
Dalle ultime gravi epidemie erano trascorsi quasi vent’anni. Nel 1867 toccava all’architetto Giacomo Fiore riportare all’attenzione dei consiglieri comunali le problematiche di sempre. In quegli anni il Comune, in preda ad una forsennata corsa alla costruzione e all’innalzamento di case, faceva sfollare il quartiere di S. Leone in Boccetta. Gli abitanti, rimasti senza dimora, impiantarono delle baracche nella zona di Portalegni, rendendola subito malsana per via dell’assenza di condotti fognari e per la cattiva circolazione dell’aria. Quest’ultimo inconveniente fu dovuto, secondo i rilevamenti dell’architetto Fiore, alla presenza di un lungo muro di cinta, costruito nel XVI secolo, che impediva la circolazione delle correnti. La trascuranza di questi problemi portò a ripetute epidemie di colera.
Ancora più grave la questione del Gran Camposanto, gran risorsa per le entrate municipali e grande incompiuta. Per garantirsene la gestione, accusava Hopkins, il sindaco Cianciafara utilizzò espedienti da uomo politico navigato. Fece sparire i documenti contabili e i disegni del progetto iniziale del 1855 per farne redigere uno nuovo e più faraonico, stuzzicando la vanità degli architetti.
Fece pubblicare la gara d’appalto dei lavori sulla Gazzetta Ufficiale piuttosto che sulla Gazzetta di Messina, come si faceva per consuetudine. Così fu che il 10 luglio 1865, dopo le formalità d’asta, la favorita ditta Mangano vinse l’appalto, ma non finì mai i lavori.
A sostegno, anche il consigliere comunale Martinez: «la piaga più cancrenosa di Messina è il bilancio comunale […]. I bilanci comunali si compilano tuttora come anticamente: per copia conforme al precedente, e ad usum delphini; in essi primeggia la poesia nella parte attiva, e lo sciupio nella passiva…».
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(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
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