La parola all’Esercito Italiano
La quantità di pubblicazioni e di documenti che mettono sott’accusa l’esercito italiano nel suo intervento di soccorso è sproporzionata rispetto a quelle poche opere che raccontano l’impegno dei soldati italiani spediti nella città dello Stretto il giorno dopo il disastro tellurico.
Ci sono raccolte epistolari di soldati italiani, lettere di ufficiali stranieri, lettere spedite da marinai russi. Sono tutte testimonianze originali e storiograficamente interessanti, ma la nostra preferenza è andata a un’opera dai contenuti rari, di buono spessore letterario, un libro-verità sottoforma di raccolta di lettere spedite da un soldato dell’esercito italiano alla sua fidanzata. Ne riporteremo i tratti più salienti, per una più ampia visione di quello straordinario evento e per una doverosa comparazione con le altre testimonianze riportate.
Lettere dal terremoto, Vanni Kessler
Autore dell’opera Lettere dal terremoto è Vanni Kessler, soldato del 30° Battaglione Bersaglieri, già noto traduttore di testi storici ed economici dal tedesco all’italiano. Nella prefazione, Kessler dichiara la motivazione che l’ha spinto a raccogliere e trascrivere le sue lettere: «Il libro di verità dev’essere per i giovani, per i vostri figli, per i miei fratelli, ora che tanto scetticismo si spande, ora che tanto bizantinismo di dottrine avvelena la parte migliore della Patria. Non per voi, non per me, ma nel nome santo d’Italia». L’intento, dunque, è abbattere il muro di sfiducia e dei luoghi comuni negativi che il caso terremoto ha creato intorno all’esercito italiano, il quale, invece, dovrebbe essere tenuto in altissima considerazione quale estremo difensore dell’onor di Patria. Così si spiega l’introduzione polemica e la scelta dello pseudonimo «Pivello». Kessler, soldato e fine intellettuale straniero residente a Napoli, s’incarica (o è incaricato?) della riabilitazione dell’immagine dell’Esercito Italiano. Attende a questo compito come farebbe un bravo ricercatore: si attiene ai fatti, usa una misurata oggettività e una buona padronanza di linguaggio, fa citazioni dotte, descrive vicende, personalmente vissute, in modo crudo e un pò ingenuo, come farebbe un qualsiasi giovane di fronte a un’immensa sciagura.
La sua prima lettera è intitolata:
Fra cielo e mare, a bordo del Galileo, notte dal 16 al 17 genn.
Amica mia, amica mia,
è notte, e non posso seguire il vostro consiglio di riposare. Nella cuccetta soffocavo. Sono andato sul ponte; il mare è oscuro, il cielo è coperto, non si vede che una stella sola, lontana, Vega. S’io fossi superstizioso, direi che Vega è la mia stella: mi risplende soltanto nelle grandi contingenze della vita mia tormentata. La guardavo dalla carrozza che mi trascinava di galoppo attraverso la folla al battello, mentre voi vi stringevate a me chiedendomi a che pensassi – vi ricordate? – tutto pieno di gioia per la dolce promessa; la guardo ora mentre vado verso le rovine a prestar l’opera mia volontaria di cittadino e di soldato. Non posso riposare. Ho attorno a me il profumo dei vostri capelli, ho sulle labbra il vostro unico bacio, ho negli occhi e nell’anima il tramonto di Gennaio dolce e triste e breve – come breve!
Quando torneremo a Posillipo? Quando sentirò un’altra volta la vostra voce?
E se non tornassi più?
Che vale? Io vado a compiere l’opera più alta della mia vita. Quando il Colonnello mi ha finalmente concesso di partire per Messina, tutte le altre cose mi si sono allontanate, come sparite, come sfumate in una nebbia fitta, e i miei libri e gli amici e i parenti, tutto: e non ho viste se non le rovine, i morti, gl’incendi, i feriti, vicini a me, più vicini a me d’ogni altra cosa. E son partito. E voi avete voluto abbellire d’un dolce profumo, d’un soave ricordo le ultime ore che ho passato a Napoli. Grazie, amica mia!
Sul piroscafo che già toglieva gli ormeggi ho trovato il capitano Lucchini che va a portare una lettera al Comandante in capo (unico modo, questo, per ottenere una risposta pronta), e i nove bersaglieri che vengono con me al battaglione.
Fra tre ore, mi dice il secondo di bordo, saremo in vista della costa.
Vi scriverò ancora.
Ore 8. A sinistra la Calabria, di fronte i monti Peloritani, e una macchia bianca sul mare: Messina. Ci avviciniamo. Piove.
A poco a poco vengon tutti sul ponte. Una comitiva d’inglesi prende delle fotografie silenziosamente.
Si parla adagio, a voce bassa, come in un cimitero.
Vicino a me è un sotto brigadiere di finanza, che a un tratto mi chiama a nome. Mi volgo, ma non lo riconosco.
- -Son Tizio. Non mi ricordi? Eravamo a scuola insieme…
Ora sì che ti riconosco! Il mio perenne vicino di banco alle scuole elementari. Ci stringiamo la mano. Poi:
- -Come sei qui, tu?
- -Io sono a Messina.
- -Torni?
- -Si, perchè appena avvenuto il disastro, noi feriti meno gravi, andammo a Napoli. Ora, guariti, ci rimandano giù.
- -Quanti siete?
- -Una dozzina. Ci salvammo in pochi. Mancava una mezz’ora alla sveglia; e si dormiva sodo perchè in quei giorni il lavoro era stato più faticoso… A un tratto, il sobbalzo continuo, gli urli di terrore, lo scroscio, il fracasso delle mura che rovinavano, dei pavimenti che sprofondavano in un momento… E poi lo stordimento, la calma tragica, il rantolo dei moribondi, i lamenti e le imprecazioni dei feriti, e ogni tanto il rumore sordo di qualche trave che cadeva ancora, di qualche pezzo di muro che si rovesciava…
- -Avete avuto molti morti?
- -Circa duecento su 280… Ah, che rovina!
Entriamo in porto, lentamente. Di fronte a noi è la città distrutta… Ah! Non così l’avevo vista io, tre anni or sono, quando venni in Sicilia!
Un silenzio di morte incombe. Dal semaforo ci domandano:
- -Donde venite?
- -Da Napoli – risponde il telefono del Galileo.
- -Che portate?
- -Militari, passeggeri, viveri e coperte.
- -Va bene.
Il silenzio ritorna. A poco a poco, tutti ci scopriamo obbedendo – forse inconsapevolmente – alla pietà dell’istinto.
- -Ma non è poi tutta caduta, – dice uno dietro di me. – I palazzi sono ancora in piedi…
- -Quelle sono le sole facciate che non siano crollate: dietro è la rovina orrenda – risponde un ufficiale di bordo. – Se il vento non spirasse da quella parte, si sentirebbe già l’odore dei cadaveri…
Abbiamo avuto tutti un guizzo d’orrore. E siam restati a scrutar la rovina dietro quelle facciate sbocconcellate, mentre il battello a poco a poco ammarrava.
Ora debbo badare a lo scarico dei colli nostri.
Son ventidue e non voglio perderne nessuno. Vi scriverò più tardi, dopo sbarcati. Una tristezza senza nome e senza fine mi attanaglia l’anima.
Vi bacio le mani.
PIVELLO
[continua…]
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- Cronache (distorte) dal terremoto di Messina
- Lo stato d’assedio durante il terremoto di Messina
- Storie del terremoto di Messina raccontate dai giornali dell’epoca
- Lo smistamento dei superstiti del terremoto di Messina
(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
(2) D. De Pasquale, I Marchesi di Cassibile, ABC Sikelia Ed., 2018
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