Lettere dal terremoto: Messina, una “macchia bianca”

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La parola all’Esercito Italiano

C’è romanticismo nella lettera di Pivello-Kessler: la stella che lo segue ovunque, l’idea del sacrificio, il rischio di non tornare, il distacco dall’amata segnato da «un dolce profumo, d’un soave ricordo». Ma anche un forte senso del dovere, «di cittadino e di soldato» che parte volontario, animato dalle stesse motivazioni di una missione umanitaria («l’opera più alta della mia vita»). A Messina incontra la triste realtà di una città distrutta: «una macchia bianca» all’origine, richiama tutti i bersaglieri sul ponte della nave, c’è persino la nota di colore di una comitiva d’inglesi che scatta delle foto, ma in rigoroso silenzio. Ad un tratto, quell’atmosfera d’incredulità mista a terrore, è spezzata dalla voce di un brigadiere che riconosce il vecchio compagno delle scuole elementari e lo chiama.

I due ci forniscono utili notizie: i soldati superstiti, di stanza a Messina, furono imbarcati a Napoli e, una volta in salute, rispediti a Messina. Sono solo una dozzina e su duecentottanta se ne salvarono un’ottantina. Kessler, arrivato sul luogo del disastro la sera del 16 gennaio, ha già letto sui giornali degli scandali dell’esercito. Adesso vuole controllare con i suoi occhi che lo scarico dei colli di vettovaglie vada a buon fine. Lascia persino un bersagliere di guardia. Il battaglione è allogato a Faro Superiore, ma non può raggiungerlo subito, per via del buio. Insieme ai suoi compagni, trova ospitalità presso l’ottavo battaglione, già sul posto da «poche ore dopo il disastro, lavorando insieme coi russi e i francesi». 

Dopo un giro per le rovine della città, Kessler è inorridito: «Ogni fotografia, ogni descrizione, siano anche fatte perfettamente da un maestro dell’arte, sono sempre inferiori alla realtà». E, per rafforzare l’esempio, scrive: «Salite al Vomero o al San Martino, e guardate sotto tutta Napoli; immaginate di vedere un ammasso di calcinacci, di mattoni, di mobili sconquassati, di spranghe ferree contorte, qualche casa coi muri ancora in piedi, rarissima però – come scoglio sperduto in mezzo al mare – e scoperchiata sventrata squarciata in tutti i modi…».

L’orrore è vedere ancora molti cadaveri in giro, troppi. Nessuno li ha sepolti, perchè prima bisogna sgomberare le strade. Più in là un commilitone ha trovato duemila lire fra le macerie: «È un livornese, secco, asciutto, con una bella faccia intelligente e leale; è dell’ultima classe. Scavava all’Università per la ricerca dei codici…». Un gruppo di soldati, interessati al ritrovamento, si reca prontamente sul posto e scava. Trova un comò con vari cassetti, estrae fotografie, abiti maschili nuovi, biancheria femminile. Lei si chiamava Nina Pisani Mazzullo. Si era sposata da poco e abitava in Via dei Verdi. Non si trovò altro denaro. Si torna alla banchina delle merci dove «chi ci capisce qualcosa è bravo. Ordini, contrordini, disordini. Sacchi di pane muffito, abbandonati, qualche sacco di riso che nella fretta dello scarico cade a mare, in questo mare scuro, sudicio, che odora anch’esso di cadaveri putrefatti, e nel quale galleggiano a miriadi aranci, pezzi di legno, doghe di botti, stracci luridi».

Il nostro Pivello aspetta una giornata intera sulla banchina del porto perchè venga allestito il rimorchiatore che lo porterà a Faro. Verso sera l’imbarcazione parte, ma è costretta a fare ritorno nella zona falcata per via del mare in tempesta. È il 17 gennaio, i soldati, zuppi, gelati e digiuni, vanno a scaldarsi presso il fuoco acceso dai Carabinieri e mangiucchiano «tra il fumo che accieca il nostro pane e la carne».

Alle ore 6 del 19 di gennaio, le truppe sono svegliate da uno squillo di trombe: era scoppiato un furioso incendio ai piedi del Palazzo Bonanno, vicino al Municipio.

«Il fuoco divampa, sale, si abbassa a un tratto, sguiscia tra le rovine, si arrampica lungo i muri a divorare le imposte sconnesse, ad avvampare le cortine agitate dal vento, i quadri, le fotografie attaccate alle pareti, le travi che reggono ancora qualche tegola e che precipitano con fracasso trascinandosi dietro calcinacci, pezzi di cornicione, quarti di muro; le fiamme s’alzano come serpenti insaziabili, strisciano su per le pareti, minacciose, s’inabissano a un tratto, si chetano un poco, par che si spengano; poi divampano impetuosamente ululando, crepitando, sempre vincitrici, sempre sterminatrici…».

L’azione dei soldati è frenetica: allontanano dalle fiamme tutto ciò è di legno, cercano di isolare il fuoco temendo l’esplosione di un magazzino di sostanze alcoliche. Nella circostanza, il tenente Pivello si ferisce ad una mano con un chiodo, mentre il tenente Giustiniani, «con le sue mani di conte e di patrizio genovese, tira fuori un’asse che bruciava a metà e la scaraventa dall’altra parte». Alla fine della giornata i soldati passavano alle medicazioni.

Il giorno dopo Pivello e la sua compagnia sbarcavano nei pressi della spiaggia di S. Salvatore dei Greci, pronti a raggiungere la zona del Faro. Qui caricavano le vettovaglie sulla schiena di undici muli e si dirigevano verso il campo dei bersaglieri. Il tragitto era reso ancora più lungo dalla quantità di macerie sparse nella via, e più funereo, per le scene lugubri che, di volta in volta, si presentavano. L’aria, mista di fumo e di cadaveri in putrefazione, era irrespirabile. In uno scenario apocalittico, quasi di guerra, il battaglione raggiungeva il villaggio di Pace. Sulla via, solo case crollate, sugli spezzoni di muri rimasti in piedi, cartelli con le seguenti scritte: cadaveri 6, cadaveri 4, oppure tutti salvi o tutti sepolti. Un pò più giù, alcune piccole baracche erano rimaste intatte e vi si scorgevano donne che stendevano il bucato al sole e al vento, e una folla di bimbi che gridava e cantava.

Dopo qualche casa diroccata i soldati guadagnavano il ponte di Guardia e cominciavano l’arrampicata per raggiungere gli accampamenti. Mangiavano tutti insieme, in una sorta di sala mensa fatta di tavole di legno, dividendosi le forchette e i bicchieri. La 7^ Compagnia del Capitano Pacileo in quei giorni non era rimasta con le mani in mano: pur nelle comprensibili difficoltà aveva messo su una vera e propria cittadella a Faro Superiore. Qui, quasi tutti i seicento superstiti avevano le loro baracche, gli altri stavano sotto due grandi tendoni bianchi donati dai Francesi. A Messina centro tutto questo era ancora un sogno, ma a Faro Superiore i Bersaglieri lavoravano instancabilmente, costruendo due o tre baracche al giorno.

Arrivata la sera, i militari stanchi si raccontavano i fatti della giornata o ricordavano i momenti della partenza, distesi sulle brande. In una di queste occasioni, il tenente Giustiniani raccontava a Pivello di aver ricevuto l’ordine di partenza per Messina alle nove e trenta di sera. Alle ore undici, dopo aver preso, alla meno peggio, borse e bagagli e aver salutato i parenti, si presentava all’imbarco dell’Immacolatella per salire sulla nave Jonio della Navigazione Generale. Nulla era ancora pronto: mancavano i viveri, le coperte, le attrezzature. Dovette aspettare fino alle tre del mattino prima d’imbarcarsi con i medici, i funzionari di P.S. e gli infermieri, in preda alle notizie dei supplementi notturni dei giornali che pubblicavano: l’immane disastro… ventimila morti … Messina tutta una rovina. Cosa mai li avrebbe aspettati? La nave era stipata fino all’inverosimile, i subalterni non trovarono posto che sul ponte o nella sala da pranzo. Ci misero tutta la notte per raggiungere lo stretto. Il comandante della Jonio, non vedendo alcuna segnalazione dal semaforo di Torre Faro, faceva fermare la nave. Fu solo alle prime luci dell’alba che l’imbarcazione si mosse lentamente verso Messina e fu subito circondata da piccole barche di pescatori di Faro e di Ganzirri, piene di «gente seminuda e inebetita che domanda[va] pane» (foto n. 23).

Il pane fu distribuito, ma non fu possibile fermarsi. Il piroscafo Jonio raggiunse il porto e approdò. Prontamente fu raggiunto da un’altra miriade d’imbarcazioni cariche di feriti che andavano da una nave all’altra in cerca di ricovero, invano. Alcuni superstiti furono fatti salire a bordo, ma solo quelli più gravi, avvolti in lenzuola e coperte; uomini con vesti femminili, donne che indossavano cappotti o pantaloni, alcuni portavano sospese con due dita delle gabbie di canarini, altri tenevano sulle ginocchia un cane. Fra quelle barche non c’era nessuno che s’incaricasse di portare il battaglione a terra. Il maggiore Morozzo provò a raggiungere la terraferma con una barca, per trovare nuovi mezzi di trasporto. In breve ottenne la disponibilità dei Russi, che lo aiutarono ad accogliere i bersaglieri e il personale medico nelle loro lance.

Intanto il generale Mandile ordinava alla compagnia di raggiungere il Piano della Mosella. I soldati non avevano ancora messo piede a terra che furono costretti ad assistere a uno spettacolo pietrificante: una violenta scossa di terremoto fece cadere poco distante da loro l’ultimo muro rimasto in piedi dell’Hotel Trinacria. Tremarono per un attimo. Poi, davanti a loro, solo scene raccapriccianti: «Non camminavo sulle rovine, ma sui cadaveri, su le carni disfatte e sanguinanti, su membra lacere confuse con le pietre. Mettevi un piede su un sasso, e quello scivolava elastico; sotto c’era una mano, un piede, o un pezzo di carne umana…». Le colonne militari erano continuamente attraversate da barelle con morti e feriti, trasportate da bersaglieri, militari e marinai russi. Il 7° battaglione si apprestò a deporre gli zaini e ad eseguire gli ordini: «salvare prima i vivi e poi scavare i morti». Mise in salvo un buon numero di persone sotto una pioggia torrenziale e aveva appena soccorso una ragazza seminuda, nascosta tra le macerie, quando gli fu assegnata un’altra zona da bonificare. Era il gasometro, un punto assai pericoloso, perchè sprigionava ancora del gas infiammabile. Nessuno si arrischiava ad accendere le torce, mentre faceva già buio ed era in pratica impossibile continuare a trasportare i morti alla banchina del porto.

Soldati e ufficiali avevano quasi tutti un parente qui a Messina, il capitano De Donato una sorella maritata, con casa in via dei Mille, il capitano Scarano due nipoti in collegio. 


Articoli precedenti sul Terremoto di Messina:


(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].

(2) D. De Pasquale, I Marchesi di Cassibile, ABC Sikelia Ed., 2018


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