Dalla “monarchia costituzionale pura” a un “sistema parlamentare controllato dal presidente del Consiglio”
Il Proclama di Moncalieri
Il proclama di Moncalieri del 1849, pronunciato dal D’Azeglio volle mettere la parola fine al pandemonio creatosi in seno alla camera dei deputati sulla questione della lotta per l’indipendenza (i democratici infatti volevano la guerra a tutti i costi, ma il ministro li invitò ad osservare lo statuto, che prevedeva il diritto di fare la pace, e tale diritto era proprio del re). Essa infatti stava compromettendo lo sviluppo democratico del paese, la sua navigazione verso un governo parlamentare. Per questo il presidente del consiglio pensò a un atto di forza: sciogliere le camere e passare alle nuove elezioni. Questa soluzione, drastica e pericolosa da un lato, presentava buone giustificazioni: innanzitutto si voleva dimostrare la forza del governo, poi l’importanza del momento per le istituzioni liberali. Le nuove elezioni infatti non avrebbero cambiato nulla in termini di rappresentanza, ma avrebbero dovuto invitare la parte democratica ad accettare posizioni più moderate (il governo D’Azeglio cadde sulle leggi sul matrimonio).
Tra il re e il parlamento
Fu a questo punto che emerse la figura di Cavour che si attribuì il compito di costruire quella stabile maggioranza parlamentare che doveva garantire non solo la sovranità nazionale ma anche l’applicazione dello Statuto. Cavour, infatti, era il capo effettivo della maggioranza della camera elettiva con l’idea di riunire, in un connubio, gli elementi di una destra reazionaria con quelli di una sinistra progressista, rivoluzionaria e demagogica (rappresentati rispettivamente da Cavour e da Rattazzi). Ma la figura del presidente del consiglio, prevista come primus inter pares, con la funzione di presiedere le discussioni governative, si configurò in modo autonomo e divenne, con Cavour, una figura di mediazione e di moderazione tra il re e il parlamento.
Si era più volte pensato, inoltre, di dare vita a un senato elettivo ma tale idea, messa per iscritto dal Carutti nel suo Dei princìpi del governo libero, fu abbandonata sia per l’opposizione della Corona, sia per non modificare l’assetto costituzionale. I contrasti sorti tra senato e camera erano tutti relativi alle prerogative regie: tutto ciò che le avesse intaccate era respinto dalla camera alta, così accadde, ad esempio al momento dell’estensione della cittadinanza sarda agli emigrati del lombardo-veneto o al momento della proposta di abolizione di privilegi nobiliari. Cavour cercò di rendere il senato sempre più malleabile grazie al sistema delle infornate di elementi eletti dal re, su proposta del presidente del consiglio. La prova elettorale del 1853 diede ragione allo statista piemontese, legittimando la sua condotta presidenziale.
Con Cavour si poteva dire compiuto il passaggio dalla monarchia costituzionale pura a un sistema parlamentare controllato dal presidente del consiglio.
Soppressione corporazioni religiose prive di utilità sociale
Ma la prova provata che il Cavour fosse sulla buona strada e che il suo potere fosse significativo, fu il disegno di legge sulla soppressione delle corporazioni religiose prive di utilità sociale, presentata dalla Camera dei deputati (1854). L’opposizione clericale si era stretta intorno alla controproposta del senatore Calabiana, vescovo di Casale, allo scopo di far cadere il governo. Cavour presentava le dimissioni ma l’opinione pubblica si mosse a suo favore e il re fu costretto a richiamarlo.
Uno dei più autorevoli costituzionalisti del regno, il Melegari, tenne all’università di Torino nel 1857 un Corso nel quale ribadiva la necessità del mantenimento di una forma monarchico-rappresentativa poichè l’accordo tra la corona e la nazione costituiva la base fondamentale della libertà. Tale forma non fu minimamente intaccata dal sistema delle annessioni nè dai pieni poteri votati dal parlamento al governo alla vigilia della guerra del 1859. E questo perchè tale passaggio era costituzionale e perchè le annessioni vennero ratificate con plebisciti di volontà espressa della popolazione. La violazione del postulato garantista della divisione dei poteri poteva essere facilmente superata, nella prassi, sia dalla limitata rappresentatività del parlamento sia dell’omogeneità tra governo e maggioranza parlamentare.
Le “democratiche” annessioni al Regno d’Italia
Le annessioni videro lo stanziamento presso le regioni di un commissario straordinario (governo provvisorio autonomo) sostituito poi da un governatore con pieni poteri su ogni autorità esistente. Ciò non implicò la fusione con la monarchia sabauda nè l’estensione della legislazione e dell’amministrazione piemontesi. Ci fu invece un certo gradualismo nell’attuazione del progetto unitario. Per esempio in Sicilia vi fu la Luogotenenza di Cordero di Montezemolo a rappresentare lo stato sabaudo e ad assicurare il passaggio dei poteri, con l’ausilio di un consiglio formato da elementi locali (segretariato). Ricordiamo che i plebisciti vennero realizzati a suffragio universale, quindi in forma apparentemente democratica, perchè dessero un appoggio incondizionato alla monarchia sabauda. Inoltre le formule utilizzate non furono sempre le stesse: si andava dalla formula proposta agli elettori toscani ed emiliani l’11 marzo 1860 Annessione alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II, ovvero regno separato? A quella siciliana del 21 ottobre 1860 Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele II re costituzionale e i suoi legittimi discendenti? A quella veneta e romana del 1866 e 1870 Dichiariamo la nostra unione col Regno d’Italia sotto il governo monarchico costituzionale del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori?
Vittorio Emanuele II re d’Italia
Cavour pensò bene poi di ricorrere alle nuove elezioni nel 17 dicembre 1860 per la formazione del primo parlamento nazionale consentendo la votazione di un rappresentante ogni 49.000 abitanti con sistema elettorale uninominale a doppio turno. La consacrazione della natura democratica dell’operazione fu la proclamazione dell’unità d’Italia da parte del parlamento nazionale, mentre il compito di proclamare la nascita del nuovo Stato toccò a una legge ministeriale per evitare che insorgessero scomode discussioni in parlamento: Vittorio Emanuele II assume per sè e per i suoi successori il titolo di re d’Italia.