Nella Messina descritta da Gaetano Salvemini s’assiste all’assalto al potere da parte della borghesia urbana. L’aristocrazia fondiaria reagisce e, ravvivata dal sostegno dei «bianchi», ritorna alla carica, capeggiata, questa volta, da Salvatore Marullo, nobile di Milazzo, già sindaco negli anni 1892-93. Marullo fu coinvolto nell’affare dell’acquedotto comunale, insieme al banchiere Mauromati e agli avvocati Arigò e Orioles. Dai suoi terreni, infatti, proveniva parte delle «penne d’acqua» che dissetavano la città.
Il problema dell’acqua a Messina fra sorgenti e pozzi
Già negli anni ’80, gli ingegneri di Messina fecero a gara per consigliare i migliori sistemi di rifornimento idrico per la città. Non mancarono di lanciarsi accuse l’un l’altro: il fisico Antonio Costa Saya indirizzò numerosi strali contro l’architetto Leone Savoja, difensore della «teoria dei pozzi» ovvero favorevole al prelievo delle acque direttamente dai pozzi per il rifornimento urbano e dalle sorgive per quello periferico. Costa Saya, invece, si era fatto promotore dell’utilizzo delle sorgive nella risoluta convinzione che dotassero la città di acque più pure. Savoja, docente ordinario d’architettura, statica e idraulica all’Università di Messina e architetto comunale, scrisse alcune lettere per difendersi dalle accuse di sperperamento del denaro pubblico nell’utilizzo delle acque sorgive per lavori di pubblica utilità. N’approfittò anche per illustrare la sua teoria sulle acque di Messina: le sorgenti portavano una quantità d’acqua molto scarsa per soddisfare una popolazione di circa 125.000 abitanti ed erano anche antieconomiche poiché costringevano il Comune a pagare i proprietari dei terreni e le condutture per l’incanalamento. In più, in questo lungo tragitto, le acque correvano il rischio d’inquinarsi. I pozzi, invece, erano più economici, portavano maggiori quantità d’acqua, si potevano realizzare ovunque perchè Messina era ricca di acque sotterranee, non contenevano acque inquinate perchè i pozzi neri erano pochi e poco profondi e le fogne si riversavano nelle acque del porto, dove la corrente provvedeva rapidamente a disperderle. In una seconda lettera, Savoja confermava la sua «teoria dei pozzi», consigliava di scavare un economico pozzo sulla falda ad oriente della collina Agliastro e accusava l’insistente avversario di guardare più agli interessi personali piuttosto che curarsi delle sorti della città.
La Messina dei proprietari terrieri…
Sulla collina Agliastro nutrivano forti interessi alcuni proprietari terrieri, i quali, in pratica, vendevano le acque delle loro sorgenti al Comune. Probabilmente, in questa gara di menti esperte che avevano suggerito al Comune di Messina come fare a risolvere il problema idrico della città al minor costo, la borghesia agraria dei Marullo, dei Mauromati, dei De Gregorio, dei Cianciafara aveva invocato l’aiuto dell’insigne fisico Costa Saya allo scopo di legittimare scientificamente la vendita delle acque al Comune.
…e la Messina dei colletti bianchi
Anche il collegio degli ingegneri e degli agronomi di Messina si riunì in commissione nel 1886 per deliberare sulla questione dell’acquedotto. A capeggiarlo fu l’ing. Antonino De Leo, radicale, ex repubblicano e massone, coadiuvato dall’ing. Giuseppe Papa già Presidente della Società Operaia. La commissione valutò attentamente il problema, riportando dati numerici interessanti: dalle sette sorgive il Comune di Messina traeva 1.600 metri cubi litri d’acqua al giorno nel 1884 e 2.160 metri cubi nel 1885, cosicché ogni abitante godeva di una quantità d’acqua giornaliera variabile fra i 18 e i 29 litri, mentre gli «igienisti moderni» prescrivevano un minimo di 150-200 litri per persona. Inoltre, nel dibattito s’indicavano le condutture inquinate come la causa principale delle epidemie di colera verificatesi nel 1854 e nel 1867, e quelle di vaiolo di un paio d’anni prima. La soluzione della commissione per la ditta Antoci, che aveva già assunto dal Comune il compito di prelevare 5.000 metri cubi d’acqua dalla sorgiva della Santissima, è subito pronta: adottare esclusivamente tubature esterne e sostituire le interne di terracotta con tubature in ghisa, raggiungere i 15.000 metri cubi totali di acqua al giorno. Come? Convogliando le acque defluenti dall’imbocco Messina-Palermo (4.000 metri cubi) e le acque fra Camaro e Gallo (altri 4.000 metri cubi), quest’ultime da far confluire, con una spesa di appena 200.000 lire, nell’alveo del S. Filippo, dove si stava scavando la galleria peloritana per il passaggio della ferrovia. Ovviamente, essendo tale porzione di terreno di proprietà del Governo italiano, le acque avrebbero dovuto essere prima acquistate… a spese del Comune.
Il Comune non mancò di pagare anche le spese per i danni procurati dalla ditta incaricata dell’esecuzione dei lavori della Galleria Peloritana. Durante la costruzione della galleria, la ditta Bianchi aveva ostruito il corso delle acque che irrigavano il fondo di proprietà del banchiere Francesco Lella Siffredi. Questi, nel 1898, dopo ben dodici anni dalla denuncia, ottenne il risarcimento di 17.000 lire dal Prefetto di Messina.
Il progetto dell’acquedotto si era potuto realizzare sotto la giunta Martino, non senza difficoltà.
L’affare dell’acquedotto comunale nel contesto politico locale e nazionale
Il 1 luglio del 1902 il prefetto di Messina Serrao scrive a Giolitti, ministro dell’Interno nel governo Zanardelli, lamentandosi del fatto che «un’associazione monarchica» cercava di contrapporre la candidatura del clericale Perrone all’onorevole Fulci, consigliere provinciale. Si tratta, dice Serrao, di un gruppo di «noti affaristi locali non ancora rassegnati per la sconfitta nell’affare dell’acquedotto». Giolitti è lesto a rispondere e già il 2 luglio consiglia a Serrao di non fare entrare nel consiglio provinciale «affaristi di bassa lega».
Era cominciata la battaglia che porterà alle elezioni politiche del novembre del 1904.
Gli affaristi di bassa lega, riuniti intorno all’associazione monarchica, sono capeggiati dal settantaduenne Francesco Perrone Paladini (Taormina 1830-Messina 1908), ex garibaldino, in origine anticlericale, fondatore del giornale Il Mongibello e direttore del quotidiano L’Aquila Latina, dal quale, insieme ai democratici Bottari e Hopkins, si scagliò contro la «dittatura cianciafariana» negli anni ’80. Fulci si era servito di lui nel 1899 per vincere le amministrative. Dopo il 1900, nella ricomposizione dell’asse politico-affaristico messinese, Perrone Paladini cambiò posizione e si legò ai gruppi conservatori, difese la linea politica privatistica del palermitano Antonio Starabba, meglio conosciuto come Marchese Di Rudinì, e quella autoritaria del palermitano Crispi, mentre fu fiero avversario del Giolitti.
L’associazione monarchica perroniana era appoggiata dai cattolici e dai fuoriusciti socialisti «nasiani», come l’avvocato Domenico Faucello, e repubblicani, come l’ingegnere Luigi Lombardo.
Il fronte popolare dell’avvocato Fulci tra spinte anticlericali e calamità naturali
A quest’eterogenea formazione monarchico-clerico-liberale, che riusciva a ottenere la maggioranza nel consiglio comunale e la presidenza del consiglio provinciale con il professore Buscemi, si contrapponeva un’associazione popolare, creata nel 1902 dal noto avvocato Ludovico Fulci, con l’appoggio dei radicali, dei repubblicani e dei socialisti. Seguì un anno di disordine politico e sociale con tumulti nelle piazze. A conferma di ciò, citiamo un altro telegramma del Presidente del Consiglio al Prefetto di Messina, datato 30 maggio 1903: a un anno di distanza Giolitti ammonisce il prefetto Serrao per la sua «azione insufficiente a evitare eccessi e cortei per la città».
Giolitti, resosi conto, in seguito alle elezioni politiche del novembre 1904, della forza schiacciante delle file monarchico-clerico-liberali a Messina, abbandonava il Fulci e trovava due nuovi campioni ministeriali in Arigò e Orioles, perroniani, eletti deputati con l’aiuto dei cattolici antisocialisti e antimassonici.
La linea dei precedenti accordi saltò all’improvviso, al punto tale che neanche l’impegno massonico garantì più l’unità, al di là del colore politico: fra il 1906 e il 1908 furono radiati dalla Loggia massonica «Mazzini e Garibaldi», per aver aderito all’associazione monarchico-clericale, l’ex sindaco Martino e il deputato Arigò.
Il 7 maggio 1906 cadde anche la giunta Marullo, sostenuta dai cattolici e dall’Arigò. Quest’ultimo, in seguito all’inchiesta sull’affare dell’acquedotto e sulla scia delle contestazioni popolari, consegnò le dimissioni da assessore comunale. Si riaprì un nuovo commissariamento del municipio della durata di sei mesi, fino all’elezione del nuovo sindaco di Messina che il consiglio volle sempre configurare nella persona di Giuseppe Arigò, al fine di riabilitarlo dallo scandalo finanziario. Il deputato, neanche a dirlo, rifiutò la nomina.
Pochi giorni dopo, nel novembre del 1906, il consiglio eleggeva Enrico Martinez, confermando la rinnovata forza del blocco conservatore. Il vecchio Martinez ebbe poco tempo per curare gli affari comunali poiché la morte lo colse il 25 aprile del 1907. A sostituirlo fu l’assessore anziano Gaetano De Pasquale, fino all’elezione dell’avvocato Gaetano D’Arrigo, avvenuta il 10 maggio 1907 .
Nel luglio del 1907 il ministro trapanese Nunzio Nasi fu condotto agli arresti dal Senato riunito in Alta Corte di giustizia per i reati di peculato e appropriazione indebita. Trapani insorse, sostenendo il complotto ai danni di Nasi e degli interessi della Sicilia. Nel processo che seguì il 5 novembre, Nasi si difese asserendo che il denaro preso dalle casse statali era stato utilizzato per fini istituzionali e che i libri del ministero erano stati offerti ad enti bisognosi; inoltre, cercando di restituire il favore resogli dal suo accusatore on. Ettore Ciccotti, dichiarò che se il Ciccotti era divenuto professore ordinario di Storia Antica presso l’Università di Messina lo doveva allo stesso Nasi che n’aveva preso le difese. Nasi fu condannato a undici mesi di carcerazione domiciliare, decadde dalla carica di ministro e deputato, gli fu interdetta la carriera politica per quattro anni e due mesi. La città di Trapani rispose gettando in mare le insegne del Re e incendiando i suoi ritratti, provocando disordini nelle piazze durante tutto il periodo elettorale. L’ex ministro fu rieletto dopo aver scontato la pena.
Proprio in quel periodo, un’ondata anticlericale aveva visto vive sommosse anche in Messina, ad opera di comitati studenteschi. Giolitti, per sedare gli animi, rilasciò la ferma dichiarazione sui rapporti fra Stato e Chiesa: due «linee parallele» che non devono incontrarsi mai.
In seguito alle decisioni moderate prese il 19 settembre, a Firenze, dal X Congresso nazionale socialista, ci furono agitazioni operaie. A questo stato di cose si aggiunsero i nuovi contrasti con l’Austria e le terribili calamità naturali, quali le inondazioni del centro e del nord Italia, i terremoti dell’ottobre 1907 in Calabria, del marzo 1908 in Basilicata e quello più disastroso di Messina e Reggio del 28 dicembre 1908.
A Messina, «il sindaco del terremoto» fu Gaetano D’Arrigo, il quale restò in carica fino al 9 gennaio del 1909 , prima di cedere il comando della città al tenente generale Francesco Mazza.
Articoli precedenti sul Terremoto di Messina:
- Messina 1908-2018: i 110 anni del terremoto che unì gli italiani più dell’Unità
- 28 DICEMBRE 1908: storia di una tragedia annunciata
- Storia di un superstite del terremoto di Messina: Antonio Barreca
- Messina 1908: “quale spettacolo terrificante!”
- Storia del primo telegramma che annunciò il terremoto di Messina al mondo
- Da «Via del Corso» a «Corso Cavour»
- Messina? Già cancellata prima del terremoto
- Le mani sulla città
- Un intellettuale dissidente a Messina: Riccardo Hopkins
- Il dramma delle alluvioni a Messina
- Le acque messinesi nelle mani dei privati
- Arriva il re!
- Le piaghe di Messina
- Messina alle soglie di un governo liberale
- Il potere dei palazzi
- Ottocento borghese: le mani su Messina
- Trasformismo “alla messinese”
- La Voce di Gaetano Salvemini
(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
(2) D. De Pasquale, I Marchesi di Cassibile, ABC Sikelia Ed., 2018
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