Alla fine del secolo XIX, l’eguaglianza giuridica sancita dalla rivoluzione francese, ed esportata in metà Europa, non bastava più: la collettività chiedeva anche l’uguaglianza delle sostanze, di quella ricchezza che da troppo tempo era rimasta nelle mani di pochi. Il nuovo movimento politico, sorto per difendere questa difficile richiesta di perequazione sociale si chiamò socialismo, mentre la sua variante radicale prese il nome di comunismo.
I nuovi privilegi della società dell’Ottocento
Il socialismo nacque nel momento in cui la società riconobbe nello Stato un elemento super partes, volto ad eliminare le diseguaglianze economiche e sociali.
La borghesia, classe sociale emergente, cercò di sganciarsi dal peso dell’assolutismo politico ed economico, si guadagnò i propri spazi in nome dell’individualismo, della proprietà privata, del patriottismo. Tuttavia ereditò dalle vecchie istituzioni il senso del rispetto e della gerarchia.
La vecchia nobiltà e una parte del clero si raccolsero intorno alla figura del monarca, nel disperato tentativo di difendere i loro preziosi privilegi.
In Italia, il ruolo d’abile tessitore degli accordi fra l’ala conservatrice e quella progressista toccò a Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio per nomina regia nel 1892. Da questa data cominciò la vera svolta politica dell’Italia post-risorgimentale. Giolitti capì che non poteva fermare l’avanzata di socialisti e cattolici e, invece di combatterli con manovre politiche, agevolò la loro entrata in Parlamento.
Le nuove leve della politica non mancarono di far sentire la loro presenza, cercando di mettere in difficoltà, attraverso gli strumenti democratici, la vecchia classe dirigente. Cominciò l’epoca delle congiure, delle inchieste e degli scandali.
Banchieri, creditori e procacciatori d’affari
Che il mondo politico fosse corrotto e che molti funzionari pubblici affondassero le mani nelle casse statali era un’usanza comune in tutta Italia. Basti pensare allo scandalo della Banca Romana che coinvolse lo stesso ministro del tesoro Giovanni Giolitti e il presidente del consiglio Francesco Crispi; al caso del trapanese Nunzio Nasi, ministro delle Poste nel primo Gabinetto Pelloux (1898-1899) e ministro della Pubblica Istruzione nel Gabinetto Zanardelli (1901-1903), accusato di peculato (secondo il resoconto della Commissione d’inchiesta, aveva compiuto trasferte personali a spese dello Stato e sottratto oggetti del Ministero). In sua difesa insorse tutta la Sicilia e un messinese in particolare, Francesco Perrone Paladini, fondò, nel 1908, il Partito Siciliano, allo scopo di alimentare l’agitazione autonomistica.
Invano Crispi, Di Rudinì e Pelloux cercarono di rimediare allo strappo elettorale, e le loro misure repressive non fecero altro che contribuire all’inasprimento della battaglia politica fra monarchici, liberali, massoni, clericali, da un lato, e repubblicani, socialisti e cattolici, dall’altro.
In quello stesso periodo Messina era guidata da una giunta comunale conservatrice in cui si susseguirono, dal 1893 al 1900, i sindaci dirudiniani Francesco Mauromati, Giacomo Natoli, Gaetano Loffredo, tutti grandi proprietari terrieri che avevano il fulcro dei loro interessi nella gestione dell’acquedotto, del dazio al consumo e nell’edilizia; infine Gaetano D’Arrigo e Giuseppe Arigò, avvocati con il vizio dei grandi affari (tram, gas, banche, navigazione).
Qui sta il nodo dell’intera questione: l’aristocrazia fondiaria rifiuta lo Stato perchè le ruba pezzi di potere e il controllo della proprietà fondiaria è un elemento fondamentale di sopravvivenza per quest’ultimo residuo di classe feudale.
Lo Stato ha il problema della fornitura dei servizi alla cittadinanza: come realizzare strade, edifici pubblici, acquedotti, ferrovie senza toccare la proprietà privata?
Il problema passa anche sul piano del diritto: espropriazione con giusto indennizzo o servitù di passaggio?
A Messina, la soluzione (e l’indennizzo) più giusta era quella più conveniente al privato, dal momento che era la comunità stessa (il Comune) a pagarne il prezzo. Certo, questa soluzione era pregiudizievole per le casse municipali ma, dopo un pò di tribolazioni, il governo centrale avrebbe risolto il problema del disavanzo con una nuova tassa. L’impiccio era che, ogni tanto, bisognava ritoccare qualche bilancio e gonfiare qualche spesa.
Accordi tra pubblico e privato: l’espansione delle Banche a Messina
Giudicate strano quest’accordo tra Comune e privati? No di certo, se pensate che in giunta o in consiglio c’erano uno o più parenti del privato, l’avvocato o il medico di famiglia, il curatore dei beni, l’architetto, il commerciante dei prodotti della tenuta del proprietario terriero e chi più ne ha, più ne metta. La vecchia nobiltà terriera, infatti, non realizzava più matrimoni con elementi della propria classe, ma apriva le porte alla piccola e media borghesia cittadina che offriva prosperità economica e il controllo della città, in cambio di un pezzo d’ex-feudo da tramandare ai figli o ai nipoti.
Grazie all’abilità di questa piccola borghesia nel tessere trame politico-finanziarie, dall’Unità d’Italia fino al 1904, a Messina nacquero in tutto nove banche, tre filiali e sei cittadine: la Banca Nazionale, il Banco di Sicilia, il Credito Siciliano, la Cassa di Risparmio Principe Amedeo (nata nel 1868 e liquidata nel 1897), la Banca Siciliana (nata nel 1872 e liquidata nel 1890), la Banca Popolare di Messina (1890), la Banca di Messina filiale del Monte dei Paschi di Siena, la Nuova Cassa di Risparmio di Messina (1898), la Banca «Unione» (1904) . La ragione sociale delle banche era unica per tutte: società anonima per azioni a responsabilità limitata al capitale versato come fondo comune.
Gli azionisti avevano gli stessi nomi degli impiegati comunali e provinciali, d’avvocati, magistrati, assicuratori e commercianti.
Chi aveva maggiore bisogno di denaro e faceva ricorso frequente al credito bancario? Dai nostri studi, compiuti analizzando le sentenze d’accertamento e d’aggiudicazione del Tribunale Civile di Messina dal 1883 al 1913, emergono i seguenti dati:
- i commercianti (34%)
- le vedove e gli eredi (17%)
- i possidenti terrieri (17%)
- i professionisti (15%)
- i nobili senza titolo (6%)
- i funzionari e gli impiegati pubblici (5%)
- le imprese edili (4%)
- i sacerdoti (2%).
Chi prestava loro denaro?
- gli istituti finanziari privati (34%)
- i proprietari e i possidenti terrieri (33%)
- le banche (23%)
- i professionisti (10%).
Fra tutte le imprese, la maggioranza era rappresentata da ditte in commercio e società anonime. Dalla lettura dell’oggetto delle sentenze, scopriamo che buona parte delle imprese e degli impiegati faceva ricorso al credito non per necessità, come le altre categorie elencate, ma per speculazione. Stava nascendo una nuova categoria d’investitori attratti dall’affare del momento. Di contro era sorta la figura assai pericolosa del procacciatore d’affari, colui il quale doveva possedere il fiuto per le attività imprenditoriali di successo.
Per chi volesse fare un raffronto con i nostri tempi, pensi alla new economy, ai baby-boomers che alla fine del XXI secolo (appena cinque-sei anni fa) proponevano internet come il mercato del futuro, pieno di strabilianti opportunità. Oppure ai promotori finanziari, incaricati (dalle banche e dai tanti istituti finanziari sparsi per il mondo, che li pagano profumatamente) di rastrellare i risparmi delle famiglie con la promessa di risultati «superiori all’indice MIB30».
Il meccanismo era lo stesso: attirare presso le banche quanti più capitali possibili, liquidi o sottoforma di titoli e valori immobiliari. A tale scopo, le banche messinesi si servirono di arcaiche figure di promotori, scegliendoli fra intermediari nullatenenti, capitani d’industria o commercianti. La posizione di questi ultimi era particolarmente privilegiata dal momento che conoscevano di persona i protagonisti d’ogni giro d’affare. Il primo passo era costituire una società per azioni dove far confluire i potenziali azionisti o meglio, per usare le parole dello studioso Ettore Ciccotti, «quanti incauti o mal consigliati si lasciavano prendere dall’esca».
Speculazioni affaristiche a Messina dopo l’unità d’Italia
Gli «incauti» erano attirati principalmente dalla fiducia che avevano nel procacciatore, dai nomi delle persone coinvolte nel progetto e dalla prospettiva di un guadagno facile ed elevatissimo. Poteva partecipare all’operazione anche chi non possedeva la liquidità necessaria, perché la banca si offriva di anticiparla dietro il rilascio di garanzie reali, quali beni immobiliari o titoli di rendita del debito pubblico. Il promotore della società, a volte direttamente incaricato delle banche, si diceva il maggior azionista e si riservava l’amministrazione finanziaria della società stessa. Gli ingenui azionisti, totalmente fiduciosi nelle capacità del loro amministratore, non si preoccupavano di controllare l’andamento delle operazioni commerciali, mentre il capitale sociale, depositato in banca, andava sempre più assottigliandosi. Dopo qualche tempo, la banca informava gli azionisti che la società stava per entrare in passivo ma, al fine di non interrompere l’affare in corso, avrebbe essa stessa anticipato i capitali per le successive operazioni commerciali, riservandosi il diritto di potersi soddisfare sui beni offerti in garanzia. Di lì a poco la società avrebbe dovuto dichiarare il fallimento per bancarotta.
Secondo l’articolo 847 del codice di commercio del Regno d’Italia, il fallimento di una società in nome collettivo determinava il fallimento di tutti i soci, per cui l’amministratore, in qualità di socio di maggioranza, non poteva essere indicato come unico responsabile del fallimento. Ne derivava che nessun azionista aveva diritto alla restituzione della propria quota di partecipazione. L’amministratore della società adduceva, a giustificazione del fallimento, la «errata scelta delle operazioni commerciali compiute», che avevano portato alla perdita totale delle quote sue e degli azionisti di minoranza.
La banca avrebbe fatto seguire i decreti ingiuntivi per i capitali prestati e non restituiti, e fatto mettere all’asta i beni immobili dei debitori. Dalle sentenze di aggiudicazione dei beni immobili si evince come ad impossessarsene fossero proprio i soci delle banche o i loro delegati, vizio comune di tante realtà italiane di quel tempo.
Anche Messina pullulava di questi loschi uomini d’affari che cercavano il pollo da spennare.
L’imprenditore edile Letterio Bonanno fu il promotore di una società anonima di tramvai a vapore, chiamata «La Messinese», con sede in Giampilieri. Per la sua costituzione, egli attirò, insieme ai soci Ernesto Cianciolo e l’avvocato Pietro Calapaj, i capitali di vari azionisti. La società non fu attivata per la sopravvenuta morte di Letterio Bonanno e, nel 1886, venne ricostituita per opera dell’ex socio Cianciolo. Questi riunì tutti i soci per votare il nuovo Statuto e fu stabilito che la società dovesse restare in vita per sessanta anni, avere un capitale sociale di tre milioni di lire, 12.000 azioni da 250 lire ciascuna e 3/10 delle azioni da versare alla Banca Siciliana.
La banca d’appoggio fu liquidata a soli quattro anni dalla realizzazione di un affare plurimilionario.
Gli azionisti di minoranza coinvolti ci rimisero le terre e i titoli del debito pubblico dati a garanzia della loro quota.
Quale fu lo scopo dei promotori dell’iniziativa societaria e della loro banca d’appoggio? Quello di sottrarre ai grandi possidenti proprietà terriere che offrivano notevoli rendite, con la vendita delle servitù di passaggio e delle acque sorgive al Comune. Insomma, l’attacco alla cosiddetta borghesia agraria, da parte della piccola e media borghesia, era già cominciato ed era solo il primo atto di un’azione molto estesa e lungimirante.
L’iniziativa non fu certo isolata.
La riscossione dei dazi al consumo
Il Governo unitario aveva concesso ai Comuni la possibilità di vendere in appalto la riscossione dei dazi al consumo.
Nel 1895 il Comune di Messina mise in vendita all’asta pubblica la gestione dell’Ufficio riscossione dei dazi al consumo per il quinquennio 1896-1900. La gara d’appalto si restrinse fra due contendenti: il prosindaco Gaetano Loffredo e l’appaltatore edile Giuseppe Manzella.
Quest’ultimo riuscì ad aggiudicarsi la gara, impegnandosi a versare alla Tesoreria comunale di Messina 825.000 lire, come cauzione per l’amministrazione dell’Ufficio dazi.
Tale Ufficio, dal quale dipendevano le maggiori entrate erariali, era tenuto alla restituzione dei canoni riscossi in questa misura: 823.304,33 lire per il canone governativo e 2.477.695 lire per il canone comunale.
Manzella eseguì il pagamento della cauzione alla Tesoreria in diverse soluzioni: versò 185.000 lire in valori e ne detrasse altre 115.000 da un credito di 300.000 lire che vantava presso la ditta Magnani. Per recuperare la restante somma trasformò l’Ufficio dazi al consumo in una società per azioni.
Gli azionisti avrebbero partecipato all’attività, ognuno con una propria quota, ed assunto «proporzionalmente alla rispettiva interessanza, tutte le obbligazioni derivanti dal contratto d’appalto». Furono coinvolti in tutto dieci azionisti, fra commercianti, impiegati e professionisti: Giovanni De Domenico, Giuseppe Vadalà, i coniugi Giuseppa Gangi e Giuseppe Bisazza, Pasquale Di Bella, Giuseppe Siracusano, i coniugi Eleonora Cartolillo e Carlo Duca, Letterio e Giuseppe Celeste, Giuseppe Cappello, Giacomo Macrì, Vittorio Emanuele Bonanno, i quali stipularono, tramite scrittura privata, una convenzione per l’appalto della riscossione dei dazi governativi e comunali per gli anni 1896-1900 . La società così costituita stabilì che gli utili del primo e dell’ultimo anno sarebbero rimasti in cassa comune da dividersi alla fine della gestione, mentre quelli del secondo, terzo e quarto anno sarebbero stati divisi a fine anno fra tutti i contraenti, ciascuno a seconda della propria quota.
L’intera somma di 825.000 lire fu depositata presso il Banco di Sicilia. Solo due azionisti versarono la propria quota in contanti: il promotore Manzella e l’armatore-commerciante Bonanno, tutti gli altri la consegnarono in titoli di rendita, cartelle ed ipoteche. Alla fine della gestione, avvenuta nel 1900, gli azionisti non ebbero diritto a nessun utile, poichè la società fallì «a causa di errate operazioni commerciali».
Fu impossibile compiere una verifica e un controllo delle operazioni finanziarie operate dall’amministratore dell’Ufficio dazi, perchè Manzella non tenne mai un registro del bilancio commerciale della società, come invece avrebbe dovuto fare per legge, e nessuno dei soci si era preoccupato di tenerlo. Il Tribunale sottolineò l’eccessiva leggerezza dei soci nell’aver dato credito, nella gestione di un affare così importante, al Manzella e al Celeste, ritenuti pubblicamente due appaltatori edili, non due commercianti, e quindi inconsapevoli circa la correttezza della gestione. Dai registri contabili del Banco di Sicilia risultò che il capitale sociale dell’Ufficio dazi fu speso interamente in operazioni commerciali e, per via di un passivo dovuto a sei cambiali insolute, la banca dovette dichiarare il fallimento dell’Ufficio.
Il Banco di Sicilia recuperò i crediti vantati verso l’Ufficio dazi attraverso la vendita all’asta delle rendite e dei beni immobili ipotecati, costituenti le quote di partecipazione degli azionisti.
Il Manzella fu dichiarato introvabile.
Articoli precedenti sul Terremoto di Messina:
- Messina 1908-2018: i 110 anni del terremoto che unì gli italiani più dell’Unità
- 28 DICEMBRE 1908: storia di una tragedia annunciata
- Storia di un superstite del terremoto di Messina: Antonio Barreca
- Messina 1908: “quale spettacolo terrificante!”
- Storia del primo telegramma che annunciò il terremoto di Messina al mondo
- Da «Via del Corso» a «Corso Cavour»
- Messina? Già cancellata prima del terremoto
- Le mani sulla città
- Un intellettuale dissidente a Messina: Riccardo Hopkins
- Il dramma delle alluvioni a Messina
- Le acque messinesi nelle mani dei privati
- Arriva il re!
- Le piaghe di Messina
- Messina alle soglie di un governo liberale
- Il potere dei palazzi
- Ottocento borghese: le mani su Messina
(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
(2) D. De Pasquale, I Marchesi di Cassibile, ABC Sikelia Ed., 2018
Se vuoi ricevere il mio libro GRATIS in formato eBook, lasciami la tua email qui o iscriviti alla mia newsletter.