La crisi dello Stato liberale
Crispi si sentiva l’ultimo uomo del Risorgimento e l’ultimo difensore dello stato unitario, forse per questo intraprese la via della repressione antipopolare. Alla fine del secolo, mentre le contestazioni popolari si facevano sempre più insistenti, emise un decreto reale per i provvedimenti eccezionali in Sicilia, al fine di liquidare il movimento antiunitario e repubblicano dei Fasci siciliani.
Lo stato d’assedio fu sancito dal silenzio del parlamento invischiato negli scandali bancari e nell’appoggio del re. Ne scaturì un putiferio a livello sociale, confluente in un attentato anarchico contro lo stesso Crispi e apparentemente calmato con l’intervento legislativo crispino: il divieto di possesso di materie esplosive, l’aggravio delle pene per il terrorismo e la disubbidienza militare, il divieto di aggregazione al fine di sovvertire gli ordinamenti sociali. Di fatto furono così sciolti il partito socialisti del lavoratori italiani e le associazioni a esso collegate (1894).
A contrastare l’azione crispina fu lo stesso Giolitti, che, impossessatosi di importanti documenti durante il suo ministero, raccolse le prove della corruzione del capo del governo (plico Giolitti) e della sua complicità nelle vicende bancarie. Crispi fece incriminare Giolitti per la sottrazione di documenti privati, inoltre fece chiudere dal re la sessione parlamentare, garantendosi una piena libertà di movimento sia legislativo che esecutivo e portando avanti una virtuale dittatura personale. Ma fu con il disastro di Adua che il governo Crispi cadde nel 1896.
Il re incaricò il generale Saracco di nominare il nuovo presidente che fu deciso nella persona di Di Rudinì. Questi, anacronisticamente, pensò di continuare ad appoggiare la borghesia agraria e di nominare un Commissariato civile per la Sicilia volto ad eliminare le istanze giacobine nell’amministrazione isolana. Con una legge consentì l’eleggibilità dei sindaci da parte dei relativi consigli dando così largo spazio agli elementi della borghesia agraria confusi fra quelli.
Nel frattempo si creò un nuovo dibattito sulla forma di governo possibile per via della pubblicazione del libello Torniamo allo Statuto di Sidney Sonnino, tacciato di conservatorismo. Lo Zanichelli, invece, capì che le istituzioni rappresentative avrebbero dovuto trasformarsi, prima o poi, da borghesi a democratiche.
Di Rudinì poco concluse con l’introduzione della Cassa di previdenza, perchè, non consentendo l’abolizione del dazio sul grano, tornava a mettere in ginocchio l’agricoltura del paese. A questo quadro aggiungiamo la limitazione della libertà di stampa, lo stato d’assedio, la violazione delle immunità parlamentari, l’arresto di avversari politici che resero il governo impopolare e inadatto al nuovo ordine sociale. Il colpo più duro al governo dirudiniano fu dato dal re stesso che si rifiutò di firmare i decreti sul percepimento di nuovi tributi, scavalcando la fiducia del parlamento.
Il nuovo ministero Pelloux, preparato sulla carta alle difficoltà governative del paese, continuò la politica di repressione dei precedenti governi ricorrendo all’applicazione dei provvedimenti autoritari votati dal Di Rudinì. Ma non ottenne gli effetti sperati perchè l’autorità dello Stato non si basava solo sulla forza dell’esecutivo. Fu l’ostruzionismo parlamentare a bloccare l’approvazione dei nuovi provvedimenti sociali. Di fronte a tale opposizione impose la chiusura delle camere con la motivazione che l’ostruzionismo pregiudicava il prestigio del parlamento. Nemmeno la Corte dei Conti gli diede l’appoggio sperato e nemmeno le nuove elezioni del giugno 1900 che videro raddoppiata la presenza socialista alla camera. Pelloux dava le dimissioni e, con il regicidio, finì un triste periodo storico per le istituzioni.
Seguirono i governi Saracco e Zanardelli, tuttavia privi di grandi iniziative. L’egemonia giolittiana, invece, durò per ben 11 anni, dal dicembre 1903 al marzo 1914. Il governo non venne considerato più come il comitato esecutivo delle assemblee elettive ma come un organo complesso incaricato della determinazione dell’indirizzo politico generale. Da qui l’interesse di Giolitti nei confronti della pubblica amministrazione e del suo legame con il governo. Fu garantito il decollo industriale grazie alla costituzione della Cassa di risparmio postale e la Cassa di depositi e prestiti; le Camere di Commercio vennero riconosciute come enti pubblici. Nel 1912 nacque l’INA. Si registrò così un momento di elefantiasi burocratico-amministrativa che comportò una maggiore professionalizzazione della vita politica, un maggiore controllo dello Stato da parte del governo. D’altra parte, l’allargamento dell’elettorato desiderato dal governo Giolitti, doveva portare questi burocrati alla rappresentanza parlamentare e a dare loro voce attraverso l’importante organo legislativo.
Ma tale forma di rappresentanza esaltava sempre le posizioni dei borghesi e della classe politica liberale, mentre era intenzione del capo del governo dare voce anche alle forze socialiste e radicali. Aspramente criticato dagli esponenti della sinistra, Giolitti dovette ricorrere nuovamente alle infornate senatoriali per ricomporre la dovuta maggioranza. Per ben due volte, nel 1905 e nel 1909, dovette rassegnare le dimissioni e consegnare il governo nelle mani rispettivamente di Fortis, poi Sonnino e di Luzzatti. Nella sua prima assenza, dovuta a motivi di salute, il Sonnino si trovò nella difficoltà di gestire liberali e socialisti in parlamento. Questi ultimi abbandonarono l’aula in segno di protesta nei confronti di un governo prevalentemente borghese. Sotto Luzzatti, invece, fu varata l’importante riforma Credaro (1910) sull’istruzione: scuola obbligatoria fino ai 12 anni, affidamento allo stato della gestione patrimoniale. Su una questione legata all’istruzione, e cioè sull’estensione del suffragio, cadde il governo Luzzatti.
Giolitti riportò all’attenzione del parlamento il diritto di voto per tutti i cittadini maschi (le donne erano escluse dall’elettorato per paura della strumentalizzazione clericale) di 21 anni capaci di leggere e scrivere e agli analfabeti maggiori di 30 anni che avessero compiuto il servizio militare. La proposta sonniniana del sistema proporzionale fu respinta da Giolitti e la nuova legge fu promulgata nel giugno del 1912.
Si andò alle elezioni nel 1913, in virtù delle quali l’elettorato crebbe dal 9 al 24%. [continua]