C’è un libro sul terremoto dedicato alla Russia e allo zar Nicola II. Fu scritto nel 1910 da Giacomo Longo, un messinese miracolato per ben tre volte: riuscì a salvarsi da un incendio scoppiato in casa per il rovesciamento di un lume a olio, scampò alla cecità che lo colpì a nove anni, si sottrasse alla devastazione del terremoto del 1908.
Longo nacque a Messina il 25 dicembre del 1876. All’età di otto anni fu chiuso in un collegio affinché seguisse «un corso regolare di studi». Appena un anno dopo, perse l’uso della vista e visse con questa grave menomazione fisica per tutta la sua giovinezza. Raggiunta la maggiore età, decise di sottoporsi alle nuove cure del professor Erasmo Scimeni, presso l’Ospedale di Messina e, dopo ben cinque operazioni, gli s’aprì un nuovo mondo fatto di letture e di viaggi, con il quale cercò di recuperare il tempo perduto.
A trentadue anni diventa testimone involontario del disastro tellurico e della disorganizzazione dell’esercito italiano. Solo, nella città semidistrutta, si aggira tra le macerie alla ricerca di qualche anima da soccorrere. Negli anni successivi scrive e pubblica, a proprie spese, un libro-denuncia dal titolo molto esplicito: Un duplice flagello: il terremoto del XXVIII dicembre MCMVIII e il governo italiano, aperta protesta contro il Governo italiano e il Re Vittorio Emanuele III che avevano permesso una colossale opera di sciacallaggio nei confronti della «Regina del Peloro».
Il cielo continuava ad essere grigio e la pioggia a cadere ininterrottamente, mentre in vari punti della città si levavano alte le fiamme dalle condutture del gas spezzate in ogni parte. Questa fu la prima visione che ebbe l’Ammiraglio Livtinov dal ponte della sua nave Makarov, mentre si avvicinava a Messina. L’incrociatore russo, ancorato da qualche giorno nel porto d’Augusta, in provincia di Siracusa, per alcune esercitazioni, fu la prima nave di soccorso partita alla volta della città dello Stretto in seguito alla notizia della sciagura. L’incrociatore Makarov, arrivato alle prime luci dell’alba del giorno 29, affiancato dalle due corazzate Slava e Cesarevic, si fece largo tra i detriti del porto e le carcasse delle imbarcazioni, raggiunse i primi superstiti che s’erano recati sul molo al loro arrivo. I marinai russi, appena entrati nel porto, ebbero, alla vista di tanta distruzione, la sensazione di assistere a un evento senza precedenti. Dopo un approssimativo attracco, scesero in gruppo, imbracciando picconi, funi, pale e coperte. Andarono soffermandosi in ogni luogo dove poteva esserci un’anima sepolta e scavarono, picconarono le macerie senza sosta. S’impaurivano solo quando, con ancora in mano pietre e detriti, le gambe tremavano per le continue scosse d’assestamento. Il bilancio di quel primo giorno fu ampiamente positivo per l’equipaggio russo, che aveva strappato da sicura morte circa cento persone e trasportato ben 500 feriti sulle navi. Da quel giorno, i giornali europei pubblicarono le notizie e le foto degli atti d’eroismo compiuti da quei marinai.
L’intervento russo, supportato anche dall’arrivo d’un altro torpediniere, il Bogatyr, riuscì nel miracolo di recuperare circa un migliaio di messinesi dalle macerie e di trasportarne 2.500 a Palermo, Siracusa, Napoli, dove si allestivano centri d’accoglienza per i superstiti. La solidarietà russa non terminò qui: fu costituito un comitato Pietroburgo-Messina che raccolse fondi per la ricostruzione della città. Lo Zar fu il primo offerente con cinquantamila franchi. Lo scrittore Maksim Gorkij si recò sul posto pochi giorni dopo il disastro e, dopo aver raccolto numerose testimonianze, scrisse un libro di ricordi, in forma diaristica, i cui proventi furono ceduti alla città di Messina. Quest’amichevole rapporto con i russi fu mantenuto per lungo tempo, tanto che nel 1918 l’Ammiraglio Ponomarev, il nuovo comandante del Makarov, fuggito dalla Russia bolscevica, scelse Messina come rifugio e vi trovò gente amica, sostentamento e un comitato che raccolse fondi per la sua buona causa. Anche in altre occasioni Messina diede il suo appoggio ai profughi russi. Nel 1978 la città dedicò una lapide ai marinai che trassero in salvo i superstiti del 1908. Contemporaneamente le poste russe emisero un francobollo commemorativo sullo stesso evento.
Tornando ai giorni del disastro, il 29 dicembre giunsero a Messina anche le navi inglesi, a una decina di minuti dalle navi russe. Già nello stesso giorno, i marinai della nave da guerra inglese Minerva trassero in salvo ben ventiquattro persone da un edificio in rovina e in preda alle fiamme. In quell’occasione, riuscirono a recuperare la cassaforte della Banca d’Italia. Nel frattempo, a Roma si era già appresa la notizia del disastro e l’onorevole Giolitti approntava il piano di soccorso, dopo aver riunito i ministri e proclamato lo stato d’assedio, durato dall’otto gennaio al quattordici marzo 1909. Intuita la gravità della situazione, il Re Vittorio Emanuele III, nella notte fra il 28 e il 29, fece preparare una macchina per recarsi a Napoli, da dove s’imbarcò per Messina, insieme alla consorte Regina Elena.
Nel tempo in cui il governo italiano discuteva sull’invio dei soccorsi, le truppe del generale Mazza, il prefetto Trinchieri e il regio commissario De Bernardinis approdavano nel porto di Messina a bordo della nave Savoja della società «La Veloce». Qui trovarono i marinai russi già all’opera e le navi di soccorso inglesi, francesi e danesi.
Il tenente generale Francesco Mazza (1841-1924) era stato nominato dal governo Giolitti commissario straordinario per la soluzione immediata dei problemi relativi al terremoto.
La nomina, piuttosto onerosa per quest’ufficiale di sessantasette anni, era comunque adeguata al suo grado militare. Per organizzare i soccorsi e portare a termine un programma di recupero della sicurezza e dell’impianto urbanistico, occorrevano un comandante di grande abilità e molteplici unità di uomini con esperienza nel soccorso di migliaia di feriti, abituati agli scavi, all’evacuazione e alla bonifica di intere zone.
I marinai russi, che solo il destino volle a Messina la mattina del 29 dicembre, erano proprio ritagliati per quest’intervento: provenivano dalla rivoluzione del 1905 e dagli ultimi scontri sociali del 1907 in Russia. La loro organizzazione, infatti, fu d’esempio per i reparti inglesi e italiani: seguirono un preciso piano d’intervento a zone, utilizzarono corde, pale e picconi prelevati a bordo dell’incrociatore Makarov, organizzarono un cordone sanitario per i feriti recuperati da sotto le macerie, allestirono ronde per difendere i tesori della città dagli sciacalli, recuperarono ori, gioielli e denaro che prontamente restituirono al comando militare italiano.
L’esercito italiano, invece, si rivelò il più lento e il più disorganizzato di tutti: ai soldati veniva concesso d’eseguire i soccorsi solo dietro specifico ordine; nessuno di loro scese imbracciando una pala o una fune, ma solo moschetto e baionetta; appena a terra, organizzarono la costruzione del campo utilizzando alcune case rimaste in piedi e requisendo materassi e coperte ai superstiti e alle famiglie di pescatori.
Intanto, in città, si verificano i primi fenomeni di sciacallaggio: i ladri di professione, scappati dalle carceri o in contumacia e tutti quelli che si erano inventati tali in quel momento, cominciarono a fare razzia d’ogni bene rimasto tra le macerie delle case dei nobili e dei borghesi facoltosi, tra le mura sfasciate delle banche, tra i banconi diroccati dei negozi e delle gioiellerie. Per loro il terremoto era diventato una manna e non mancò chi si arricchì a tal punto da assicurare a sè e alle sue future generazioni una buona rendita. Qualcuno poté persino comprarsi, in contanti, una baracca costruita dal Genio Civile per i superstiti.
Anche l’esercito italiano organizzò delle ronde in difesa dei cittadini, ma non avendo testimoni o prove reali a disposizione per distinguere i proprietari dei beni dagli sciacalli, allontanò dalle macerie qualsiasi persona si avvicinasse anche solo per recuperare i beni di famiglia. In quell’estremo frangente, infatti, chi poteva assumersi una tale responsabilità? Occorrevano permessi speciali o la presenza di militari messinesi a garanzia della paternità della casa o della bottega o, come recitava il dispaccio militare, «tutti coloro che avessero potuto fornire una prova di proprietà». Tuttavia, le truppe italiane e straniere non poterono essere dappertutto e la spoliazione poté avere il sopravvento. Alcuni soldati italiani, intanto, avevano preso la cattiva abitudine, dopo aver cacciato ladri, impostori e mentecatti dalle macerie, di impossessarsi dei beni ritrovati: casseforti, portafogli, casse di gioielli, vestiti, quadri, libri, armi, telefoni, telegrafi, pianoforti, biciclette, macchine da caffè. Portavano il bottino presso la Cittadella, dove sarebbe stato custodito dalle guardie militari. Nelle tasche dei giovani commilitoni, segnala Longo, a volte, scivolava una mazzetta di denaro o un pugno di gioielli che, prontamente, prendeva la «via del nord» all’interno di grossi pacchi spediti attraverso l’ufficio postale militare. Ne partivano più di cento al giorno e la cosa andò avanti fino al giugno del 1909. Il giovane cronista denunciò questi accaduti e sottolineò che ai messinesi superstiti veniva fatto divieto di spedire e ricevere qualsiasi pacco postale, finanche gli aiuti spediti dai parenti.
I messinesi scampati al disastro, quella sera stessa, dopo aver scavato per ore, furono presi dai morsi della fame e si procurarono il cibo presso qualche panetteria semipericolante, arraffarono galline e caprette libere per le strade. Dopo pochi giorni questo bendidio finì e tutti si ritrovarono a dover chiedere viveri e acqua ai soldati italiani. Intanto, erano arrivati gli aiuti alimentari degli americani, degli inglesi e dei tedeschi. Questi viveri, controllati dall’esercito italiano del tenente Usigli, non furono distribuiti a man larga. Anzi, fu operata una dura selezione: il pane bianco restava in caserma, insieme alle confezioni di riso, pasta, carne, bevande, mentre la popolazione messinese era nutrita con ottocento grammi di pane nero ogni tre persone. E sarebbe stata una magra consolazione se alcuni sottoufficiali dello stesso esercito italiano e i militari messinesi non avessero provveduto a sottrarre di nascosto qualche mercanzia per distribuirla ai malcapitati. Si ricordano i nomi del maggiore Farina, del medico sottotenente Ciaccio, dei sottotenenti Ciccarelli, Filippini, Pezzi e il tenente Pini, quali benefattori fra tutti quei rigidi ufficiali che interpretarono alla lettera gli ordini dei loro generali, privando del giusto ristoro la popolazione afflitta dal terremoto. Altri soldati avevano organizzato bancarelle per la vendita dei viveri provenienti dalla beneficenza straniera. Insomma, non mancarono casi di vera e propria speculazione, sia da parte di soldati, sia da parte di civili che la disgraziata situazione aveva vigliaccamente scaltrito.
Longo racconta che in quei giorni arrivò una seconda nave italiana della compagnia «La Veloce», denominata Sardegna, con a bordo il braccio destro di Giolitti, il ministro dei Lavori pubblici Pietro Bertolini, chiamato ironicamente l’albergatore poiché consuetamente dedito alla speculazione edilizia. Ma sulla nave vi erano anche altri 10.000 soldati rei di una grave dimenticanza: quella di non aver portato nè tende nè coperte per la loro stessa sistemazione in città. Fu così che dovettero requisire alla nave francese di soccorso, ancora una volta, quelle stesse coperte e quelle stesse tende destinate ai superstiti messinesi.
Nel frattempo i cadaveri in città si decomponevano e l’aria cominciava a diventare irrespirabile.
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(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
(2) D. De Pasquale, I Marchesi di Cassibile, ABC Sikelia Ed., 2018
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