Nel 1876 si portò avanti la discussione circa la nazionalizzazione delle ferrovie, voluta dalla destra. Ma il nuovo programma della sinistra, a favore della privatizzazione, di minori carichi fiscali, del suffragio universale e di una nuova legge sull’istruzione, sancirono la fine della Destra. Non si trattava di una rivoluzione parlamentare, afferma il Ghisalberti, rientrava piuttosto in una forma di bipartitismo imperfetto. L’imperfezione, rispetto al bipartitismo inglese, era partita dalla politica di Cavour cosiddetta del “connubio” che riuniva al centro i moderati, lasciando isolati i gruppi estremisti sia di destra che di sinistra. Nel 1876 la situazione era la stessa di prima, perciò non si poteva parlare di rivoluzione parlamentare.
Inoltre la sinistra era formata, come la destra, da elementi tratti dalla borghesia, ma la sinistra si considerava sempre più come un’alleanza di notabili più che come un partito politico, accentuando gli errori della Destra e rendendo quasi indipendenti i ministri nelle loro azioni. Di conseguenza Depretis dovette riaffermare l’autorità del Presidente del Consiglio. Nella prassi la funzione preminente di questa figura era emersa grazie al carisma di uomini quali Cavour e qualche suo successore. Depretis voleva ratificare questa funzione tramite legge. Per questo si può dire che insieme alla Destra ebbe fine anche il governo rappresentativo e salì al potere il governo parlamentare, non previsto dallo statuto. Purtroppo quella del Depretis fu solo un’intenzione perchè i ministri non gradivano un ruolo subalterno e la maggioranza parlamentare non voleva essere guidata dall’alto.
Allo scopo di mantenere il potere politico, perciò, la sinistra pensò di sfruttare il potere del ministero degli interni, nominando prefetti di parte e garantendosi così, attraverso il canale elettorale il controllo dell’amministrazione e della vita politica del paese, grazie ad accordi tra candidati e le manipolazioni elettorali (vedi Nicotera). Inevitabilmente, andarono al potere, per così dire, “i raccomandati” e ciò comportò lo scadimento del livello della classe politica.
Di fronte a questo nuovo stato di cose, il governo propose un disegno di legge sulle incompatibilità parlamentari. Il progetto governativo, non senza contrasti, divenne legge nel 1877 (diventavano in realtà ineleggibili i magistrati, i militari, i ministri del culto, i burocrati).
La legge Coppino sull’istruzione perfezionava la legge Casati del 1859 ma era ancora insufficiente.
Sulla questione fiscale, Depretis non seppe premere sulle imposte dirette per questioni di classe e mantenne le imposte indirette, tradendo le aspettative delle classi più umili.
Depretis mise in atto il meccanismo delle infornate per conquistarsi l’appoggio della Camera alta. Intanto nel gennaio 1878 morì il Re Vittorio Emanuele II e il capo del governo, in quanto legato alla fiducia del parlamento e della Corona, dava le formali dimissioni. Il re Umberto rifiutò le dimissioni del Depretis accettando di fatto l’indirizzo politico della Sinistra e il governo parlamentare, allontanando lo spettro della monarchia costituzionale. Depretis cadde solo per dissesti interni della sua maggioranza e fu sostituito dal moderato Cairoli, il quale, avendo in odio la politica degli interessi economici, contava di far entrare elementi della vecchia Destra al governo. Il suo tentativo fallì per via della poca omogeneità fra gli elementi che avrebbero dovuto comporre la maggioranza.
Il ritorno al potere del Depretis fu caratterizzato da un’azione forte: rimuovere il ministero dell’Agricoltura industria e commercio, e creare il ministero del tesoro, su indicazione del Crispi, tramite decreto legge del ministero. Tale azione fu giudicata grave perchè per modificare l’organizzazione dello stato occorreva una legge parlamentare. Cairoli salì nuovamente alla ribalta, ricostituì il ministero dell’agricoltura e vi aggiunse quello del tesoro. Il suo governo cadde per via dell’attentato al sovrano e alle rivolte delle piazze di Firenze e Siena.
Depretis salì in carica per la terza volta (1879) e propose l’abolizione della tassa sul macinato per il 1884, azione contestata soprattutto dal Senato che ne reclamava la necessità. Fu dunque crisi parlamentare proprio sulla questione tributaria e sullo scontro tra Camera e Senato sull’art.10 dello statuto. Dopo l’ultimo ministero Cairoli, caduto per la sfiducia del parlamento in politica estera (affare di Tunisi), Depretis ritornò al potere e vi rimase per altri 5 ministeri (1881-1887).
Depretis tornò alla carica con l’introduzione della riforma elettorale del 1882. Questa prevedeva l’abbassamento dell’età dell’elettorato passivo a 21 anni e il requisito di istruzione o di censo, l’introduzione dello scrutinio di lista (il territorio nazionale, diviso fino ad allora in 508 collegi uninominali, veniva ridiviso in 135 collegi plurinominali a base provinciale). La strategia di portare alle elezioni i più giovani doveva privilegiare la parte più liberale della popolazione.
Con queste innovazioni Depretis avrebbe dovuto allargare la rappresentanza del partito liberale a scapito dell’avanzare del socialismo e del cattolicesimo. Il risultato fu invece la dissoluzione delle tradizionali formazioni alleate Destra-Sinistra, la perdita del patrimonio ideale dai tempi della Destra storica e della omogeneità parlamentare.
Alla morte del Depretis, avvenuta nel 1887, il re nominò Crispi come capo del governo. Crispi era un convinto assertore del leader politico interprete della volontà della maggioranza. Ma, a differenza del Depretis che fu ligio nel rispettare le prerogative parlamentari, egli ricorse alle prerogative regie per constrastare le resistenze delle camere. Nel voler dare un’immagine forte al suo governo, fece pronunciare il suo programma politico in parlamento dal re stesso. La politica crispina, autoritaria e priva dell’appoggio parlamentare, fu dispendiosa in politica estera e coloniale. Di fronte a un forte deficit accumulato, preferì dare le dimissioni nel 1889 “per non compromettere con un voto parlamentare i grandi interessi del paese” e facendosi così interprete unico del paese.
Nella successiva legislatura, si concentrò maggiormente sull’apparato amministrativo statale, e fece approvare dal parlamento una legge che consentiva al governo di mettere a riposo i prefetti per eleggerne altri. In più fece abolire la legge sull’incompatibilità del 1877. Con due leggi del 1888 e sull’interpretazione dell’art.65 dello statuto, creò con decreto i sottosegretari di stato al fine di controllare l’amministrazione centrale e abolì i segretari generali, vero ostacolo burocratico al controllo dei dicasteri. Sempre nel 1888 riformò l’ordinamento comunale e provinciale prevedendo l’eleggibilità dei sindaci e dei presidenti provinciali (fino ad allora dirette dai prefetti) da parte dei cittadini. Un’altra importante riforma riguardò il Consiglio di Stato sorto per la difesa degli interessi legittimi del cittadino di fronte alle ingerenze dell’esecutivo. Purtroppo tale riforma non previde la separazione dei poteri (le controversie della pubblica amministrazione non vennero affidate a un giudice ordinario). Sotto la sua legislatura, venne introdotto il codice Zanardelli del 1889 che prevedeva l’abolizione della pena di morte e sanciva la liceità dello sciopero. Nel 1890 approvò la legge sulle opere pie.
Le elezioni del 1890 diedero un grande appoggio a Crispi ma un voto parlamentare lo fece decadere.
Il nuovo ministero Di Rudinì si presentava più conservatore da un punto di vista sociale, anche se più corretto dal punto di vista politico, volendo restituire le antiche prerogative al parlamento. Di Rudinì preferì cominciare dalla modifica della legge elettorale del 1882, accogliendo le istanze dei gruppi conservatori, specie della borghesia agraria, esclusa dal sistema dello scrutinio di lista. Il capo del governo riportò il collegio uninominale (508) e riservò al governo la discrezionalità del numero di abitanti per circoscrizione. Con una ferrea politica del risparmio del denaro pubblico, e il ripristino delle misure legislative, elettorali e amministrative del passato, Di Rudinì avrebbe voluto riportare in auge la vecchia destra storica. Il taglio delle spese delle forze armate doveva però decretare la sua fine per mano dello stesso re.
Nel 1892, per decreto regio, Giolitti divenne il nuovo capo del governo, una scelta criticata perchè vista come un’imposizione degli ambienti di corte. Il programma di Giolitti, invece, era votato alla ricerca di una maggior consenso dell’elettorato, una nuova forma che tendeva alla democrazia, considerando le classi politico-sociali più ai margini, ma anche più presenti e più combattive quali la socialista e la cattolica. Fu così che, per riprendere la maggioranza parlamentare, ricorse al sistema delle infornate di senatori. Inoltre, approfittò delle nuove leggi per spostare o mettere a riposo i prefetti e sciogliere qualche amministrazione municipale per collocare qualche commissario prefettizio. Le nuove elezioni del 1892 gli diedero la maggioranza parlamentare. Nel 1893 potè attuare il riordinamento bancario con la creazione della Banca d’Italia. Poi, per via degli scandali bancari e della corruzione dilagante, il suo ministero cadde.
Successivamente si aprì una polemica circa il ritorno a una monarchia costituzionale piuttosto che parlamentare. Il Bonghi, a favore della prima, fu contestato non solo dai giolittiani ma anche dai crispini, convinti assertori del primato del governo a scapito del parlamento e della corona. Furono questi ultimi ad avere la meglio e a portare Crispi nuovamente al potere [continua…].
Dario De Pasquale