Corsi e ricorsi storici sulle banche
Ieri, come oggi, le banche, gli istituti finanziari e i creditori puntano all’accentramento delle proprietà immobiliari, ricorrendo a meccanismi ben collaudati (riconoscibili nelle pagine di storia che vi illustriamo, risalenti a circa 130 anni fa) o nuovi e ingannevoli artifici.
[…] Fra tutte le imprese, la maggioranza era rappresentata da ditte in commercio e società anonime. Dalla lettura dell’oggetto delle sentenze, scopriamo che buona parte delle imprese e degli impiegati faceva ricorso al credito non per necessità, come le altre categorie elencate, ma per speculazione. Stava nascendo una nuova categoria d’investitori attratti dall’affare del momento. Di contro era sorta la figura assai pericolosa del procacciatore d’affari, colui il quale doveva possedere il fiuto per le attività imprenditoriali di successo[1].
Per chi volesse fare un raffronto con i nostri tempi, pensi alla new economy, ai baby-boomers che alla fine del XXI secolo proponevano internet come il mercato del futuro, pieno di strabilianti opportunità. Oppure ai promotori finanziari, incaricati (dalle banche e dai tanti istituti finanziari sparsi per il mondo, che li pagano profumatamente) di rastrellare i risparmi delle famiglie con la promessa di risultati “superiori all’indice MIB30”.
Le banche nell’Ottocento
Il meccanismo era lo stesso: attirare presso le banche quanti più capitali possibili, liquidi o sottoforma di titoli e valori immobiliari. A tale scopo, le banche messinesi si servirono di arcaiche figure di promotori, scegliendoli fra intermediari nullatenenti, capitani d’industria o commercianti. La posizione di questi ultimi era particolarmente privilegiata dal momento che conoscevano di persona i protagonisti d’ogni giro d’affare. Il primo passo era costituire una società per azioni dove far confluire i potenziali azionisti o meglio, per usare le parole dello studioso Ettore Ciccotti, «quanti incauti o mal consigliati si lasciavano prendere dall’esca»[2].
Gli “incauti” erano attirati principalmente dalla fiducia che avevano nel procacciatore, dai nomi delle persone coinvolte nel progetto e dalla prospettiva di un guadagno facile ed elevatissimo. Poteva partecipare all’operazione anche chi non possedeva la liquidità necessaria, perché la banca si offriva di anticiparla dietro il rilascio di garanzie reali, quali beni immobiliari o titoli di rendita del debito pubblico. Il promotore della società, a volte direttamente incaricato delle banche, si diceva il maggior azionista e si riservava l’amministrazione finanziaria della società stessa. Gli ingenui azionisti, totalmente fiduciosi nelle capacità del loro amministratore, non si preoccupavano di controllare l’andamento delle operazioni commerciali, mentre il capitale sociale, depositato in banca, andava sempre più assottigliandosi. Dopo qualche tempo, la banca informava gli azionisti che la società stava per entrare in passivo ma, al fine di non interrompere l’affare in corso, avrebbe essa stessa anticipato i capitali per le successive operazioni commerciali, riservandosi il diritto di potersi soddisfare sui beni offerti in garanzia. Di lì a poco la società avrebbe dovuto dichiarare il fallimento per bancarotta.
Secondo l’articolo 847 del codice di commercio del Regno d’Italia, il fallimento di una società in nome collettivo determinava il fallimento di tutti i soci, per cui l’amministratore, in qualità di socio di maggioranza, non poteva essere indicato come unico responsabile del fallimento. Ne derivava che nessun azionista aveva diritto alla restituzione della propria quota di partecipazione. L’amministratore della società adduceva, a giustificazione del fallimento, la «errata scelta delle operazioni commerciali compiute», che avevano portato alla perdita totale delle quote sue e degli azionisti di minoranza[3].
La banca avrebbe fatto seguire i decreti ingiuntivi per i capitali prestati e non restituiti, e fatto mettere all’asta i beni immobili dei debitori. Dalle sentenze di aggiudicazione dei beni immobili si evince come ad impossessarsene fossero proprio i soci delle banche o i loro delegati[4], vizio comune di tante realtà italiane di quel tempo[5].
L’imprenditore edile Letterio Bonanno fu il promotore di una società anonima di tramvai a vapore, chiamata “La Messinese”, con sede in Giampilieri. Per la sua costituzione, egli attirò, insieme ai soci Ernesto Cianciolo[6] e l’avvocato Pietro Calapaj, i capitali di vari azionisti. La società non fu attivata per la sopravvenuta morte di Letterio Bonanno e, nel 1886, venne ricostituita per opera dell’ex socio Cianciolo. Questi riunì tutti i soci per votare il nuovo Statuto e fu stabilito che la società dovesse restare in vita per sessanta anni, avere un capitale sociale di tre milioni di lire, 12.000 azioni da 250 lire ciascuna e 3/10 delle azioni da versare alla Banca Siciliana[7].
La banca d’appoggio fu liquidata a soli quattro anni dalla realizzazione di un affare plurimilionario.
Gli azionisti di minoranza coinvolti ci rimisero le terre e i titoli del debito pubblico dati a garanzia della loro quota[8].
Quale fu lo scopo dei promotori dell’iniziativa societaria e della loro banca d’appoggio? Quello di sottrarre ai grandi possidenti proprietà terriere che offrivano notevoli rendite, con la vendita delle servitù di passaggio e delle acque sorgive al Comune. Insomma, l’attacco alla cosiddetta borghesia agraria, da parte della piccola e media borghesia, era già cominciato ed era solo il primo atto di un’azione molto estesa e lungimirante.
– Dal libro Le mani su Messina, di Dario De Pasquale, Messina 2007.
[1] Ivi, Cap. IV: Il credito e le banche.
[2] E. Ciccotti, in AAVV, Il Sud nella storia d’Italia, a cura di R. Villari, 1970, p. 300. Cfr. G. Luzzatto, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, parte seconda, Padova, 1960, pp. 407-410. A pag. 409: «La speculazione assume proporzioni colossali specialmente dopo il 1883. Sembra sia giunto il regno di cuccagna e che basti comperare terreni fabbricabili, anche procurandosi il denaro ad alto interesse, per realizzare in pochi mesi guadagni del 200 e del 300%».
[3] D. De Pasquale, Modalità e tecniche …, cit., Cap. IV: Il credito e le banche.
[4] Ibidem
[5] Cfr. R. P. Coppini, Banche e speculazioni a Firenze nel primo ventennio unitario, in “Quaderni Storici”, n. 32, maggio-agosto 1976, pp. 581-604.
[6] Ernesto Cianciolo (Messina, 6 novembre 1856 – 29 maggio 1905) è il più giovane sindaco di Messina, eletto il 17 dicembre 1883 all’età di 27 anni. Fu, con Felice La Spada, al centro di altri lucrosi affari che coinvolsero banche, edilizia urbana, gestione dell’acquedotto. Camminarono insieme fino all’ultima giunta Cianciolo del 1889.
[7] ASM, Trib. Civ. Me, Sentenze, busta n. 310, sentenza n. 334. La Banca Siciliana era un grande gruppo finanziario realizzato tramite una cordata di industriali e banchieri messinesi: Enrico Ainis, Adolfo Sarauw, Ferdinando Baller, Giovanni Baviera, Gennaro Cuomo, Giulio Jaeger, Antonio Manganaro, Giuseppe Mauromati, Lorenzo Ottaviani, Fortunato Parlato, Vincenzo Picardi, Saverio Polimeni, Giovambattista Preve, Patrizio Rizzotti, Pietro Giovanni Lella Siffredi, Paolo Grill. Nata nel 1872, fu liquidata nel 1890 ad opera della Cassa di Risparmio Principe Amedeo.