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La rivolta di Messina del 1 settembre 1847

Nei primi decenni dell’Ottocento, la Nazione italiana era solo un’idea nelle menti dei pochi rivoluzionari sparsi su tutto il territorio italico, audaci e giovani intellettuali che ben si rendevano conto dell’incertezza e della difficoltà della loro missione.
Dietro una fitta diffusione di volantini, manifesti e opuscoli clandestini, avevano saldato la trama dei rapporti della cospirazione siciliana con quella peninsulare e preparato la rivoluzione che, il 1° settembre del 1847, avrebbe dovuto portare all’omicidio degli ufficiali borbonici stanziati a Messina. Al grido dei carbonari di Avellino, morivano sul campo Lorenzo Pispisa, Rosario Aspa, Letterio Falconieri, Silvestro Scarfì, Filippo Brigandì, Nicola Scotto, solo per citarne alcuni.
Sedato il tumulto, il comandante borbonico emanava una lista di fuoribando, sui quali pesava una condanna a morte, con i cinquantatrè nomi di messinesi sospettati dell’attentato del 1° settembre. Altri diciotto erano tratti in arresto, fra i quali l’abate Giovanni Crimi, mentre il calzolaio Antonino Sciva, accusato di aver sparato al comandante di marina Busacca, era prontamente fucilato.
Altri storiografi coevi riportavano dati, fatti e nomi differenti. Il Guardione riteneva che le squadre fossero cinque, e non tre, e che i capi della rivolta fossero Antonino Pracanica, Antonino Caglià Ferro, Francesco Saccà, Angelo Staiti e Paolo Restuccia. Secondo i suoi studi, condotti attraverso la raccolta di testimonianze dirette, i primi attacchi erano stati brevi e violenti e si erano svolti vicino al porto a partire dalle ore sei del pomeriggio. Le squadre riunite in Piazza Duomo avevano attentato al cocchio del generale Busacca, ferendo lui e i due soldati della scorta Santomauro e Franchini. In quell’occasione moriva, sotto i colpi dei suoi stessi compagni, l’operaio Paolo De Francesco, audacemente avvicinatosi al cocchio nell’intenzione di costringere il generale a baciare il tricolore italiano in segno di venerazione. Durante quei momenti convulsi si combatteva nelle vicine vie Idria e Cardines contro le truppe borboniche arrivate dalla piana di Terranova.
Seguiva una notte di rappresaglie, di perquisizioni nelle case dei civili, d’arresti. Nei giorni successivi continuavano gli scontri nelle vie, mentre gli iscritti al bando erano fatti espatriare a Marsiglia e a Malta. Il popolo difendeva il «branco de’ malfattori», così com’era apostrofato dal maresciallo di campo dell’esercito borbonico Salvatore Landi.
Il 12 gennaio 1848 anche Palermo insorgeva.

Il fallimento della rivoluzione

Negli anni successivi a quelle due rivolte una vasta produzione di pubblicazioni avrebbe descritto i differenti volti delle rivoluzioni europee e le ragioni del fallimento della rivoluzione nazionale. Carlo Cattaneo parlava chiaramente a tal proposito: «L’Italia deve ricredersi delle proprie illusioni: il movimento rivoluzionario deve partire dal basso: non più pontefici redentori, non più re liberatori: e nemmeno dittatori che sarebbero presto forzati di rappresentare la parte di pontefici e di un re. È necessario che in ogni stato d’Italia il popolo, insorgendo, proclami immediatamente la propria sovranità, che elegga la propria assemblea, che la sorvegli, che organizzi egli stesso la propria libertà. Noi crediamo alla Repubblica di Roma, a quella di Venezia, all’avvento delle altre repubbliche che formeranno il fascio degli Stati Uniti d’Italia […] E’ con falsi raggiri che s’inganna la libertà, è sempre parlando di grandezza, di gloria, di supremazia che si fa dimenticare il diritto». Rivoluzione dal basso, falsi raggiri che ingannano la libertà, la gloria che oscura il diritto: ci sono tutti gli elementi per capire, da rivoluzionari, dove la rivoluzione aveva fallito. C’era chi, come Carlo Pisacane, recriminava la mancanza di un partito rivoluzionario capace di dirigere il moto popolare; chi, come i moderati, mirava ad un ideale borghese sull’esempio della rivoluzione dell’89, cercando un trono sul quale appoggiarsi; chi traeva insegnamenti per il futuro, sognando una rivoluzione socialista e la democratizzazione dell’esercito, dell’economia e dell’istruzione.

Giovanni Crimi o Krymi

Il sentimento patriottico nebroideo, nonostante la lontananza con le città e gli scarsi contatti delle genti di montagna come Galati, era nutrito da un gruppo di uomini che intraprendeva più frequentemente dei viaggi per la loro attività lavorativa o per lo svolgimento di incarichi ecclesiastici. Fra gli uomini del Risorgimento galatese, ricordiamo: Ignazio Anzalone, Carmelo Patti e Vincenzo Orlando, che furono nel novero dei mille garibaldini, e l’abate Giovanni Crimi (o Krymi).
Quest’ultimo è conosciuto come uno dei più grandi patrioti siciliani, mise il braccio, la mente e il fervore del suo carattere a favore della liberazione dell’Italia dai borbonici.
Nacque il 16 ottobre 1794 a Galati Tortorici (diventata Galati Mamertino nel 1860) e fu battezzato nella chiesa madre, poco distante dalla casa natale, nel quartiere Panetteria, dove il padre, Nicolò, praticava il mestiere di “mastro falegname” (1). Fu seminarista a Messina e sacerdote a 23 anni. Prese gli ordini presso la Congregazione benedettino-cassinese. Fu personaggio attivo nelle rivolte palermitane del 1820 e arrestato per “insubordinazione al vescovo di Patti” (dalla cui diocesi, dal 1824, dipendeva Galati). Liberato, tornò ad animare alcune società segrete siciliane fra Palermo e Messina (la Repubblica Romana) e a lanciare strali contro la tirannide borbonica attraverso nuove riviste sovversive. La polizia borbonica, una volta scoperta la sua setta, arrestò tutti i cospiratori e il Crimi tornò in carcere in attesa della forca (1827). Tuttavia, gli fu concessa la grazia e la pena commutata in ergastolo. Dietro sua espressa richiesta al re, la prigionia gli fu ridotta a ventiquattro anni, da scontare presso l’Arsenale di Palermo. Anche da carcerato non ebbe vita facile e, di conseguenza, fu trasportato alla Colombaia di Trapani e, in seguito, nel più lontano carcere borbonico di Santo Stefano (Isole Ponziane) e, infine, nel bagno penale di Nisida (Isole Flegree).
Dopo due anni di domicilio coatto a Napoli, rientrò a Messina nel 1847, in tempo per animare la rivolta del 1 settembre. Sulla strada del ritorno, passò a Galati, dove: “trovai tutti miei beni depredati e venduti da’ miei congiunti, e per due anni mendicai un pane alla pietà dei fedeli”. Scampato alla repressione susseguente agli scontri di Piazza Duomo a Messina, fu trovato sul litorale di Alì e bloccato da due gendarmi. Il giudice del circondario lo riconobbe e lo ricondusse a Messina a dorso di un asino, fra lo scherno dei popolani. Condannato nuovamente alla pena capitale, fu salvato dal cardinale messinese Francesco Di Paola Villadicani che non riunì mai il consiglio dei tre prelati per la ratifica pontificia della sua condanna.
Durante le rivoluzioni del ’48, riuscì a fuggire di prigione e continuò a combattere contro i Borbone, sfidando persino a duello il generale borbonico Pronio rifugiatosi nella Cittadella. Con Giuseppe La Masa al suo fianco, fu sempre sopra le barricate a respingere gli attacchi delle forze reazionarie. Tuttavia, nel giro di un anno, i tumulti finirono e il Crimi fu condannato al carcere duro, al quale si sottrasse dichiarando di volersi ritirare nella sua terra natia, Galati.
Durante il tragitto di ritorno, gli uomini del generale Filangieri, su ordine del re, lo tradussero prima presso le Prigioni Centrali di Messina, dove morì di stenti e privazioni e, probabilmente, di colera, il 6 settembre del 1854, condividendo la stessa sorte con l’amico di sempre Paolo Restuccia.

(1) La famiglia Crimi arriva in Sicilia probabilmente al seguito del generale bizantino Giorgio Maniace intorno all’anno 1000, si tratta dell’unico ceppo presente a Galati Mamertino (Me). Praticavano il mestiere di falegname e abitavano nel quartiere Panetteria. Nicolò (1751-1831) e Anna Olivo (1760-1828) sono i genitori dell’abate Giovanni Antonino (16 ottobre 1794-06 settembre 1854) e di Giuseppe (1798-1885). Questi dati, tratti da fonti d’archivio, sono stati gentilmente forniti dallo studioso Nino Anzalone di Galati Mamertino.

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