Messina culla dell’arte e della cultura
Grazie al suo Senato, attivo patrocinatore d’arte, Messina era conosciuta come un importante centro di promozione e diffusione artistica sin dal XII secolo. Dopo il sacco di Roma e il trasferimento nella città falcata di Polidoro Caldara da Caravaggio, una moltitudine di artisti si era riversata nella città dello Stretto, in cerca di gloria e di denari: i pittori Cesare da Milano, Vincenzo Aniemolo, Michelangelo da Caravaggio, Abramo Casembrot, Giovambattista Durand, Giovanni Vanhoubracken, Alfonso Rodriguez, Giovambattista Quagliata della scuola di Pietro da Cortona, Salvatore Monosilio, gli architetti Innocenzo Magnani, Francesco e Curzio Zuccarella, Andrea e Francesco Calamech, Guarino Guarini, gli scultori Goro di Gregorio, Frate Agnolo da Montorsoli, Martino Fiorentino e Rainaldo Romano, gli scultori-pittori-architetti Lorenzo Calamech e Nicolò Maffei.
Artisti e committenti del Seicento messinese
Nel Seicento, le scuole e le piccole botteghe messinesi educavano giovani artisti del calibro di Antonio Alberto Barbalonga (Messina, 1600 – 1649), Agostino Scilla (Messina, 1639 – 1700), Filippo Tancredi (Messina, 1655 – 1722), Filippo Juvarra (Messina, 1678 – 1736), Letterio Paladino (Messina, 1691 – 1743). In quei tempi, abitava a Messina Antonio Ruffo, principe di Scaletta, uno dei più grandi collezionisti d’arte europei. Pittore, musicista e letterato, Ruffo possedeva tele di Pietro da Cortona, Abraham Bruegel, Albrecht Durer, Lorenzo Lotto, Pietro Novelli, Guido Reni, Rembrandt, Guercino, Tiziano, Tintoretto, Mattia Preti, Artemisia Gentileschi, Polidoro da Caravaggio e molti altri. Nel 1646 poteva vantare una collezione di ben trecentosessantaquattro dipinti dei più grandi pittori del tempo, oltre che di mirabili affreschi parietali e di numerose argenterie. All’interno del suo palazzo «lusso, ricchezza, cultura e grazia si coniugavano con mirabile armonia, guidata dalla sapienza del principe».
Erano gli anni del pittore Mattia Stomer, che a Messina dipingeva un Muzio Scevola e la Morte di S. Lucia, e dello scultore Giacomo Serpotta, che, su ordine del sovrano spagnolo, faceva fondere la campana del duomo per il suo Carlo II a cavallo.
Dopo la rivolta antispagnola le tele possedute dal Ruffo erano in parte trafugate, in parte distrutte, altre riportate alla luce in tempi successivi, a Messina e in Spagna. Affermava Giuseppe Grosso Cacopardo nelle sue Memorie de’ pittori messinesi dal secolo XII al XIX: «quadri di Michelangelo, Raffaello, Parmigianino non sono rari nelle raccolte de’ nostri intendenti. I disegni delle Sibille di Raffaello finiscono nelle mani di Resta, quelli del Parmigianino in quelle dell’abate Giovanantonio Maroulle». Infine, elencava le cause della dispersione delle opere d’arte in Messina: i francesi nel 1674, gli spagnoli nel 1678, il contagio del 1743, il terremoto del 1783 e le ruberie delle truppe inglesi. Ma già dopo il terremoto del 1693, Messina aveva perso il titolo di capitale della cultura siciliana a favore della rivale città di Palermo.
Artisti messinesi del Settecento
Nel Settecento, tuttavia, la tradizione artigianale degli argentieri era ancora attiva e da Roma Filippo Juvarra chiamava a raccolta il fratello Francesco, impegnato nella creazione del superbo candelabro in argento per il Duomo di Messina. Lo stesso Francesco Juvarra, nel 1745, creava l’ostensorio per la Chiesa di S. Agnese, su commissione del principe Camillo Panfili, opera pagata centotrentamila scudi romani.
La pestilenza scoppiata nel 1743 riacutizzava i problemi della città e l’arcivescovo Gabriele Di Blasi si assumeva l’onere di riportarvi l’ordine. Una delle sue prime operazioni vedeva la trasformazione del palazzo vescovile in sede dell’Accademia Ecclesiastica, fucina di studi storici ed antiquari. Per l’occasione, Giacomo Serpotta realizzava il baldacchino di bronzo per il Duomo, su progetto di Giovambattista Quagliata.
Dopo il terremoto del 1783, il Teatro Marittimo dei Palazzi sul porto, opera seicentesca dell’architetto messinese Simone Gullì, veniva rimpiazzato dalla Palazzata di Giacomo Minutoli, con il Municipio, l’Ufficio della Cassa di Corte e di Prefettura, la sede dei Conciliatori per i mandamenti interni Arcivescovado e Priorato, gli uffici della telegrafia elettrica.
Da questa data in poi, l’Accademia Carolina e l’Accademia Peloritana si proponevano come i capisaldi della promozione culturale ed artistica della città. Il successo dell’iniziativa aveva avuto una tale risonanza che il Senato di Messina rendeva stabile e continuativo il patrocinio alla formazione di giovani e promettenti artisti.
Il vedutismo e i panorami di Messina
La tecnica pittorica del vedutismo aveva avuto larga diffusione nel corso dello stesso secolo anche a Messina, città dagli stupendi panorami, godibili da diverse altezze, dalla banchina del porto ai colli di S. Rizzo, e, inoltre, particolarmente ricca di ruderi e paesaggi a cielo terso da immortalare. La pittura di vedute, per il suo forte realismo e il contenuto emozionale, si era rivelata un mezzo di richiamo commerciale di grande successo fino all’avvento della fotografia: mercanti inglesi e regnanti europei si erano trasferiti in Sicilia dopo aver osservato un quadro di vedute del porto di Messina o delle baie di Taormina. Il prussiano Otto von Geleng, ad esempio, pittore ventenne, figlio di un ricco imprenditore, trasferitosi stabilmente a Taormina nel 1863 per godere di un clima mite e di splendidi panorami, aveva convinto regnanti e uomini d’affari a visitare la Sicilia. Per ospitare tutti i nuovi arrivati, trasformava in hotel una vecchia casa padronale vicino al teatro greco e la chiamava “Timeo”. Di grande effetto il suo messaggio promozionale: «Venite giù il prossimo inverno: se non trovate quel che vedete adesso in questi quadri, pago io viaggio e soggiorno per tutti».
La cultura del nuovo secolo si presentava come un moto contraddittorio, pieno di fermenti e d’iniziative, in cui l’arte abbracciava con forza le tematiche sociali, o se ne disgiungeva, immergendosi nei valori ideali.
L’età del liberalismo e della democrazia, delle rivoluzioni industriali e della borghesia, o, secondo la definizione di Kuno Fischer, il secolo «distruttore di miti», difensore dell’ateismo e della libertà di pensiero. Ci si rendeva conto di vivere un’epoca nuova e di largo respiro, in cui ogni giorno si moltiplicavano le tecniche e i temi artistici, soprattutto quelli «d’opposizione», le interpretazioni del tema religioso e cristiano, in un periodo di patimenti e di rivoluzioni, di stravolgimenti in campo storico, sociale, culturale, geografico e industriale.
Dalla devozione alle accademie e alla bellezza formale si passava al romanticismo di Goya, Géricault, Daumier e al realismo di Courbet. La Rivoluzione Francese riportava nell’arte il linguaggio classico per rappresentare il pathos eroico, mentre il sorgere di ideali democratici contribuiva alla diffusione del realismo.
Quest’ultima ispirazione arrivava in Italia con il paesaggista tedesco Philipp Hackert, chiamato a dirigere l’Accademia Reale di Napoli, che ben presto diveniva il più grande contenitore di artisti dediti alla pittura di vedute. Vi portavano a termine gli studi i pittori siciliani Andrea Sottile, Giovambattista Carini, Pietro Martorana, Alessandro D’Anna, Francesco Zerilli (1793-1837), Francesco Lojacono (1838-1915), Antonino Leto (1844-1913), insieme agli artisti locali Giacinto Gigante (1806-1876), Domenico Morelli (1826-1901) e l’abruzzese Filippo Palizzi (1818-1899).
In questo momento di grande dinamicità intellettuale, Messina, con i suoi artisti, partecipava ancora, come nel passato, a quelle iniziative culturali che l’avevano resa famosa anche nel campo delle arti?
- Tratto da Dario De Pasquale, Mille volti, un’anima. Dal Gran Camposanto di Messina all’unità d’Italia. Un percorso iconografico alla ricerca dell’identità perduta, ABC Sikelia Edizioni, Barcellona 2010.
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