«Cercavamo un’arte elementare che curasse gli uomini dalla follia dell’epoca, un ordine nuovo che ribaltasse l’equilibrio tra il cielo e l’inferno.» (Jean Arp)
Nella Zurigo del 1916, nel cuore della neutrale Svizzera, in un freddo febbraio, il poeta-artista rumeno Tristan Tsara inventa la parola “dada”. Sebbene il “dadaismo”, come viene chiamato successivamente dalla critica d’arte, fosse già cominciato nella pratica, il nome gli viene attribuito in ritardo. Intanto perché Dada non si proclama corrente artistica, né si vuole collocare nella scia dell’arte tradizionale, accademica, scolastica: nasce come l’anti-arte. Dada, infatti, combatte l’arte della borghesia, l’ottocento retrogrado e industrializzato che porta allo scoppio della prima guerra mondiale.
Contro chi i dada manifestavano il loro malcontento?
Contro l’antichità (come facevano i futuristi), contro la guerra e i suoi orrori (contrariamente ai futuristi).
Il movimento Dada non si affida a una tecnica artistica, basa la sua potenza espressiva sulla provocazione, sul rifiuto di quella razionalità che ha portato l’uomo sull’orlo di una crisi esistenziale. La sua principale guida è il “non-senso”. I suoi principali promotori sono, a parte il fondatore Tsara, l’architetto rumeno Marcel Janco, il tedesco Hans Arp, ai quali si aggiungono successivamente il francese Marcel Duchamp (già dada nella sua produzione artistica cominciata nel 1913 con Ruota di bicicletta) e l’americano Man Ray.
In uno scorcio di secolo ancora bigotto, il linguaggio dada, irrispettoso, stravagante, disprezzante, dirompe nella vita artistica europea. Per il suo profilo antibelligerante, viene preferito al futurismo, rispetto al quale ha una durata maggiore.
Marcel Duchamp
Artista eclettico, pittore, scultore e scacchista nato nell’alta Normandia il 28 luglio del 1887, è considerato uno dei più importanti artisti del Novecento. In pittura, passa dal fauvismo al cubismo, dal dadaismo al surrealismo. Grazie all’invenzione del ready-made (“già pronto”) diventa il precursore dell’arte concettuale.
Rare le opere pittoriche esistenti, alle quali il pittore francese rinuncia perché la sua arte aderisca il più possibile alla realtà. Per tale motivo, preleva oggetti di diversa provenienza e crea nuove forme attraverso l’assemblaggio.
La Sposa messa a nudo dai suo Scapoli, anche (Il Grande Vetro), 1915-23, Philadelphia Museum of Art. Opera iniziata nel 1915 e lasciata “definitivamente incompiuta” dal 1923, consiste in doppio vetro stretto in una cornice d’acciaio e dipinto con biacca, minio, ossidi di piombo.
Il Grande Vetro (1915, non finito) è un esempio di composizione (dittico) con finalità decorative ed educative: un insieme di elementi geometrici (coni, cerchi, raggi, rette, la pala di un mulino ingabbiata) contrapposti ad elementi naturali (una nuvola traforata, buffi oggetti che sembrano animali e tutto quello che l’immaginazione può suggerire).
Sebbene lo stesso Duchamp sia stato invitato più volte a spiegare questo quadro e sebbene si riconoscano in esso delle opere già realizzate dallo stesso artista in pittura, è piacevole dare delle interpretazioni possibili a questa eclettica elaborazione.
“Il Grande Vetro” è la possibile rivisitazione di un presepe? Un’epifania in chiave moderna?
La ricerca di una nuova cometa, una guida che indichi una direzione all’umanità? Sotto di essa è collocata una sposa (così come indicata da Duchamp), simbolo di speranza e di erotismo. In basso, dei re Magi in chiave metafisica, di fronte a Gesù Giuseppe e Maria collocati sull’orlo di una gabbia dorata (la grotta) accessoriata con una pala di mulino (il corpo di Cristo che si immola per l’umanità?). La gabbia pare sostenuta da una strana struttura (che Duchamp chiama “la macchina del cioccolato”, qui in versione di pressa per l’uva, altro simbolo cristiano, mediante un travaso compiuto attraverso una serie di coni che segnano il passaggio dalla gabbia alla macchina) che potrebbe prefigurare la croce del calvario di Cristo, giudicato dalla razionalità umana sotto gli occhi degli uomini (i fantocci a sinistra) e di Dio (i cerchi a destra).
Duchamp si rammarica delle finalità delle ultime espressioni artistiche. L’impressionismo, dice, è un’arte retinica, basata solo sull’uso della vista, al di là non esiste più nulla. Dopo secoli di arte figurativa in cui anche letteratura e religione s’incontravano, dall’impressionismo in poi si perdono i contenuti e tutto si ferma all’immagine. Nell’intento di ripristinare i contenuti dell’arte, Duchamp elabora opere che parlano di cristianità e senso della famiglia, come nel Rinascimento.