Lo scultore messinese Giovanni Scarfì, allievo di Giulio Monteverde, affronta l’ultima fase della sua carriera artistica fra le tensioni internazionali del colonialismo e dell’imperialismo.
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L’Imperialismo in scena al Gran Camposanto di Messina
Abbiamo già visto come Scarfì avesse rappresentato un alto ufficiale reduce dalla guerra di Crimea. Adesso, in età giolittiana, la cultura imperialistica imperversava in raffigurazioni di generali pluridecorati al valore, scene di vittoria dell’esercito italiano sul nemico libico.
Una volta abbandonati i temi del Risorgimento, l’Imperialismo ne proponeva di nuovi, più aggressivi e impetuosi. Dopo l’episodio di Adua (1896), infatti, il colonialismo si rivelava più che impopolare.
La guerra italo-turca del 1912 era solo la conseguenza di una potente campagna di stampa nazionalista e degli irrinunciabili interessi della finanza cattolica, a Messina impegnata anche nella ricostruzione dopo il terremoto del 1908. L’ondata militarista restava indelebile nelle opere di scultori siciliani come Mario Rutelli, autore del Monumento a Francesco Crispi (Palermo, 1905).
Giovanni Scarfì immortalava l’ammiraglio Salvatore Sant’Antonio (16) in un bel busto del 1911. Lo sguardo fisso e penetrante, tipicamente militaresco è la cosa che più colpisce di questa scultura commemorativa. Baffi e pizzo alla «Umberto I», mentre sul petto intrepido, cucite su una giubba militare da ricevimento, stanno appese le medaglie al valore e le insegne della Legione d’Onore, sulle quali si riescono perfettamente a distinguere le effigi dei re Vittorio Emanuele II, Umberto I e Vittorio Emanuele III.
A pochi anni prima, esattamente al 1908, risale un altro monumento, una figura intera ritratta in ogni minimo particolare, secondo i canoni dello Scarfì. La statua rappresenta il tenente Federico Guglielmo Gragnotti Kocciol, in divisa militare, mano destra al fianco, posizione eretta, la mano sinistra guantata che stringe il guanto destro.
Distinguiamo le decorazioni al valore appese alla giubba, la spada stretta al fianco sinistro, la fascia all’onor militare che attraversa il petto e termina con due pendagli annodati, il cappello rigonfio, i pantaloni alla zuava e gli stivaletti militari. Scarfì si ritrova alle prese con la raffigurazione di un ufficiale dell’Esercito Italiano, ne ritrae il portamento fiero e baldanzoso, il piglio autoritario. Non rinuncia, però, ai princìpi della sua arte. Nonostante tratti un tema che richiede compostezza e solennità come quello militare, il nostro artista riesce ad aggiungere un soffio di vita all’immediato realismo dell’opera.
La morbidezza dell’abito che fa le grinze al posto giusto, il fodero della spada che, correndo sottile lungo la gamba sino al polpaccio, dona all’insieme un certo movimento. L’elaborazione scarfiana sembra allontanarci dall’idea che il materiale utilizzato dall’artista sia solo ed esclusivamente un duro minerale.
Ai piedi dell’ufficiale, una civetta di candido marmo scandisce il passaggio dalla luce della vita alle tenebre della morte.
Borghesia urbana rampante
Nel 1911 il Gran Camposanto si arricchisce di un nuovo monumento raffigurante l’avvocato Giuseppe Oliva (17). A quasi trent’anni di distanza dall’esecuzione del monumento dell’avvocato Francesco Saja, Scarfì ritorna al tema della ritrattistica “forense”. Qui non ha la possibilità di rappresentare per intero la mimica del personaggio, poiché deve eseguirne solo il busto, ma pochi tratti gli bastano per dare corpo a un’idea.
L’avvocato Oliva si presenta nella sua giovanile bellezza, il volto liscio, i capelli ben pettinati, i baffi composti. È economicamente agiato, indossa un elegante vestito ottocentesco con panciotto e papillon, le arcate sopraccigliari prominenti e una sottile ruga sotto gli occhi sottolineano la fisionomia di un uomo di legge colto e attento.
Nel 1912 Scarfì diveniva autore di una colossale opera: il monumento a Letterio D’Andrea.
D’Andrea era un uomo nuovo, un manovale diventato imprenditore ed elemento influente della borghesia cittadina. La moglie ne commissionava l’opera.
L’artista dava al progetto un’impostazione cronologica e ritraeva ai piedi del monumento un bracciante, che, abbandonato per un momento il piccone, contempla mesto la morte del D’Andrea.
Per la prima volta al Cenobio abbiamo un monumento che raffigura un lavoratore e non solo un borghese, anzi il primo, per impatto visivo e significato, sembra giganteggiare rispetto al secondo.
Questa figura umile, che ricorda l’esistenza di una classe contadina ed operaia nel prepotente ed aristocratico mondo borghese dell’Ottocento, con i piedi nudi e i calzoni arrotolati alla caviglia, le grosse vene delle gambe e delle braccia, il volto rugoso di chi trascorre la vita faticando sotto il sole cocente, sembra uscita da un romanzo di Giovanni Verga.
Nella concezione di quest’opera lo scultore è spinto dal solito amore per la verità, per la nitidezza dell’immagine e il superamento della fredda rigidità della materia. E mentre l’operaio, seduto, si riposa, volge al suo padrone l’ultimo atto di devozione.
Dal finito di questa figura si passa al non-finito del resto del monumento, al finito del busto del D’Andrea. Un passaggio tortuoso, a spirale, accentua il simbolismo, sia per una diversità di piani della composizione sia per una questione di colore insita nella scultura: è la strada lunga e difficile che bisogna percorrere per arrivare a guadagnarsi un posto nella società. Da un lato, i sacrifici (evidenziati da quelle cavità che ebbero, senza dubbio, la funzione tecnica d’agevolarne il trasporto e il sollevamento), dall’altro, l’amore di una vita, rappresentato da un volto di donna coronato di fiori, scolpito a metà altezza del monumento e raffigurante la moglie del defunto.
Infine, il D’Andrea. Appare diverso rispetto agli altri busti del cimitero, anche di quelli scolpiti dallo stesso Scarfì. Stupisce quello slancio, quella spinta in avanti accentuata dall’inarcarsi del bavero della giacca, come se fosse stata la stessa roccia a generare quel busto e a tenerne sospeso il volto giovanile e fiero. Il monumento a quest’uomo è l’emblema della nuova Messina, la città risorta che offre nuove opportunità agli imprenditori edili. Sul fianco appare l’iscrizione:
GLI OPERAI FORTI E BUONI CHE AMÒ DIFESE SOCCORSE CON PIETOSE LACRIME ARDENTI NE PIANGONO LA DIPARTITA
Alle spalle è raffigurata l’entrata di una cava, sul lato sinistro una pietra miliare indicante «Km 2».
D’estrema sensibilità anche la realizzazione del monumento Cotugno, del 1915. La tomba, che reca due rilievi con i volti dei coniugi Cotugno, mercanti sarti, diventa un triclinio per la Musa che invoca il silenzio dei visitatori.
Dello stesso anno il monumento a Sebastiano Savoja (18), architetto e ingegnere di Messina, fratello del più famoso Leone.
Al 1916 risale il monumento al patriota Giuseppe Bonfiglio (1844-1916). Questi fu a fianco di Garibaldi nella campagna del 1866, combattendo presso Condino e Bezzecca. Nel testamento istituì erede universale del suo patrimonio l’Ospedale Civico di Messina.
Il mezzobusto raffigurante Ninetta D’Assenzio è del 1926. Scarfì aveva già settantaquattro anni. I lineamenti del volto e le decorazioni della veste diventano per lo scultore un rito, quasi un’abitudine. Coglie prontamente i tratti essenziali della defunta, alla quale sembra non abbia dedicato molta attenzione: non c’è più la passione, oseremmo dire “maniacale” per il particolare, la voglia di comunicare qualcosa al di là della commemorazione funebre, al di là della semplice pietra levigata. Possiamo certamente indicarla come un’opera dei suoi allievi.
È questo l’ultimo anno di vita di Giovanni Scarfì.
Al 1889 risale l’Autoritratto in bronzo, presente ancora oggi al Cenobio, sulla tomba che custodisce le spoglie dell’artista. Lo scultore è rappresentato in un mezzobusto di grande efficacia: un paltò abbottonato dal quale emerge un pomposo foulard, lo sguardo severo al quale fa da contrappunto il buffo copricapo da lavoro, pendente da un lato.
Si noti la somiglianza con l’Autoritratto in bronzo dell’amico Mario Rutelli: lo stesso tipo di cappello, con la medesima inclinazione, lo stesso vivo tratto nel sottolineare le espressioni del volto.
I busti dei due scultori erano stati entrambi fusi in bronzo presso la fonderia Laganà di Napoli.
I due avevano già avuto modo di incontrarsi a Messina in occasione della premiazione del concorso «Sculture in gesso», tenutasi presso l’Esposizione del 1882, nella quale Scarfì si era guadagnato il primo posto e Rutelli l’ottavo. Un’altra conferma della frequentazione dei due artisti al di là degli anni della Scuola romana.
Anche Mario Rutelli, con il Monumento Cacopardo, lasciava una notevole impronta presso il Gran Camposanto di Messina. La monumentale realizzazione in marmo bianco di Carrara raffigura una cappella in stile neogotico, riccamente decorata, con figure angeliche poste ai quattro angoli di una piccola torre e, inscritti in profondi tondi con gli altorilievi raffiguranti Salvatore Cacopardo, professore di Medicina legale all’Università di Palermo, Domenico Cacopardo, professore in Scienze Giuridiche all’Università di Messina, Carmelo Cacopardo, sacerdote (19).
Questa bella realizzazione, con la sua alta guglia, fa da contraltare al Cenobio.
De Gubernatis riporta altre opere eseguite dallo Scarfì prima del 1889 e presenti al Gran Camposanto: una statua in marmo di un Angelo in preghiera che decora il monumento del cavalier Lovecchio, un’altra statua in marmo di un Angelo volante che versa fiori sulla tomba di un fanciullo.
Scarfì fu anche componente della Commissione dell’Antichità e delle Belle Arti del Comune di Messina, socio onorario dell’Accademia Peloritana, professore di plastica nella scuola d’arte della Società Operaia (20).
Altri articoli sul tema:
Dietro le quinte del Cimitero Monumentale di Messina
Giovanni Scarfì, vita e prime opere
Giovanni Scarfì, il maestro del Gran Camposanto
Giovanni Scarfì fra colonialismo e imperialismo
(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “Mille volti, un’anima. Dal Gran Camposanto di Messina di oggi all’unità d’Italia, un percorso iconografico alla ricerca dell’identità perduta“, [2010].
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17 Giovanni Oliva, avvocato con studio in Via Teatro La Munizione 14, vicepretore nel Mandamento Priorato, insegnante privato con effetti legali.
18 Sebastiano Savoja, architetto con studio in Via Scesa S. Giacomo n. 25.
19 Salvatore Cacopardo (Gallodoro 1815 – Palermo 1891), rettore e segretario generale per la pubblica istruzione in Sicilia nel 1861. Diresse il periodico L’Osservatorio Medico e, a dimostrazione di come un uomo di scienza sapesse conciliare medicina e culto delle lettere, tradusse in volgare alcune opere di Cicerone.
20 DE GUBERNATIS, cit., ad vocem.