Con la colonna di Traiano, celebrativa delle sue imprese belliche, siamo all’incirca intorno al 110 d.C.
Settanta anni dopo verrà eretta un’altra colonna coclide, questa volta intitolata a Marco Aurelio, l’imperatore vittorioso sui Marcomanni, i Sarmati e i Quadi.
Se confrontiamo quest’opera con quella precedente dell’epoca di Traiano, notiamo una minore cura già nell’aspetto complessivo: la colonna non presenta l’entasi e la lavorazione è così irregolare che il cilindro in lontananza ci appare deformato. In compenso, il rilievo è più alto, le scene più concitate, gli eventi più drammatici e meno composti. Sono evidenti i sintomi della decadenza della civiltà romana: i centurioni romani abbandonano la morale che li aveva sempre contraddistinti ed umiliano il barbaro vinto. I soldati esorcizzano la paura di una possibile invasione di popoli barbari nel proprio territorio con la violenza e la sopraffazione. È questione di tempo ormai: le popolazioni italiche vivono di stenti, continuamente vessate dalle tasse necessarie a sostenere le campagne militari; continue sono anche le ruberie e gli atti di pirateria; negli accampamenti i soldati eleggono il generale vincitore come imperatore.
È facile per le religioni orientali fare breccia nella città eterna, con le loro dottrine che invitano ad una vita lontana dalle agiatezze e dai beni materiali e che, soprattutto, predicano la pace e una vita nell’aldilà migliore di quella terrena. Ed è così che nella Colonna di Marco Aurelio troviamo rappresentati due miracoli: il miracolo del fulmine e quello della pioggia. Per la prima volta le cose irrazionali per l’uomo romano vengono raffigurate, definite, persino personificate: Giove Pluvio è un vecchio barbuto che distribuisce pioggia dalle sue grandi braccia. Una visione provvidenziale che esula dalle tematiche pagane. Una chiara contaminazione del linguaggio iconografico cristiano.
Quale sentimento, se non la paura, poteva portare a una tale soluzione espressiva?
L’AVVENTO DEL CRISTIANESIMO
Il tanto atteso conforto a questa situazione di cronica instabilità politico- amministrativa, militare, economica e sociale arrivò dall’Oriente e si chiamò Cristianesimo. Non tutti però erano disposti ad accettare quella strana dottrina che predicava la pace, il rispetto del prossimo, la carità, l’uguaglianza sociale e di genere. I Romani erano pur sempre un popolo guerriero, basato sul potere gerarchico e militare, con una sola autorità massima: l’imperatore. Come assimilare il concetto del “porgi l’altra guancia” se l’uomo romano conosceva solo la legge del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”? Come riconoscere la grandezza di un Dio supremo senza rinnegare quella dell’imperatore? Come accettare l’uguaglianza sociale quando la società romana si basava sulla distinzione fra classi e la famiglia era fondata sul paternalismo?
Fu con gli schiavi e attraverso le nobildonne patrizie che si diffuse la religione cristiana a Roma. Nel IV secolo d.C. i cristiani erano talmente parte integrante della società urbana che i soli a restarne lontani furono i pagani, ovvero gli abitanti del pagus o della campagna, fortemente conservatori e legati alle tradizioni. Nel 313 d.C. il Cristianesimo divenne religione ufficiale di Stato per volontà dell’imperatore Costantino che avocò a sè l’autorità imperiale e temporale e l’autorità spirituale.
Nell’ambito dell’arte, i cambiamenti in seguito all’avvento del Cristianesimo non furono legati alla tecnica o ai soggetti trattati quanto ai contenuti, al simbolo. La rappresentazione era sempre naturalistica con temi che si ripetevano spesso, come la vite, l’uva, la palmetta, i pesci ma, rispetto all’età pagana, nascondevano un significato: la vite rappresentava Gesù e i tralci i suoi discepoli, l’uva ricordava l’ultima Cena ed era inoltre simbolo di abbondanza, la palmetta simboleggiava il martirio di Gesù, il pesce raffigurava Cristo secondo l’acrostico dal greco ictùs: Iesus Christòs Theoù Yiòs Sotèr, Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.
Una delle tecniche scelte per queste rappresentazioni fu la pittura musiva o, più semplicemente, il mosaico. Si trattava di una tecnica laboriosa, consistente nella realizzazione di un disegno compiuto attraverso l’accostamento di piccole pietre colorate chiamate tessere. Il termine “mosaico” deriva da Musa, poichè alle Muse si rendeva onore decorando allegramente l’interno di alcune grotte artificiali presenti nei giardini dei patrizi romani con delle piccole pietre colorate. In un secondo tempo furono adottati anche dei pezzetti di terracotta e poi ancora delle tessere di vetro colorato. L’innovazione più grande fu l’introduzione di una lamina d’oro all’interno dello strato di vetro: questa soluzione offriva un magnifico effetto luministico che poteva anche essere regolato grazie all’angolazione con cui le tessere si calavano nell’intonaco fresco.
Tra i principali tipi di mosaici abbiamo:
- l’opus sèctile, formato da pezzetti di marmo tagliati in modo regolare e combinati in modo da formare un disegno geometrico;
- l’opus tessellatum, formato da pezzetti di marmo tagliati in modo regolare e combinati in modo da formare un disegno ad imitazione della pittura;
- l’opus vermiculatum, affine al precedente ma formato da pezzi più minuti che ricordano dei vermicelli, i pezzetti, essendo più minuti, possono meglio seguire l’andamento del disegno e del colore.